giovedì 30 aprile 2009

‘Adotta’ il solare per portare le rinnovabili nel Sud del Mondo

Tagliare la bolletta elettrica per finanziare progetti di incentivazione delle fonti rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo. Questo in parole povere quanto farà l’Università di Bologna istallando sul tetto della Facoltà di Agraria un impianto fotovoltaico da 150 kW di potenza, che permetterà all’Ateneo di risparmiare circa 180.000 kWh all’anno di spesa energetica e 110 tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera.
Una vera e propria centrale solare “solidale” dal momento che i circa 40.000 euro in meno così evitati serviranno per ‘accendere’ una luce speciale: la quota sarà, infatti, reinvestita nella ricerca scientifica a dimostrazione di come una fonte di energia rinnovabile gratis e democraticamente distribuita possa contribuire non solo alla bolletta. Ma l’intenzione solidale del progetto non si ferma qui. L’impianto sarà, infatti, il capostipite di un network virtuale di sistemi fotovoltaici in cui chiunque avrà la possibilità di ‘adottare’ un quadretto di silicio attraverso una piccola donazione economica, destinando il ricavato della vendita dell’energia al sostegno di “progetti di pianificazione energetica nei Paesi emergenti; quegli stessi, si legge nel comunicato, “da cui oggi stiamo sottraendo le fonti energetiche impedendo ed ostacolandone la crescita e la possibilità di garantirsi un futuro migliore”. L’impegno assunto dall’Ateneo ricalca alla perfezione lo spirito del progetto FREE (Fotovoltaico per la Ricerca Eco ed Equo solidale) nato 3 anni fa dall’associazione Luce&Vitaenergia l’idea alla base, promossa dal Prof. Leonardo Setti del Dipartimento di Chimica Industriale e dei Materiali dell’Università di Bologna, è quella di rendere partecipe ognuno al rovesciamento di quel perverso sistema che lega i Paesi produttori a quelli consumatori, proteggendo contemporaneamente l’ambiente dal riscaldamento globale.
“Stiamo cercando di mettere in atto – ha dichiarato il Preside della Facoltà di Agraria, prof. Andrea Segrè – una politica energetica che porti al contenimento dei costi energetici ma che ha, al contempo, anche rilevanti aspetti etici. Il mio obiettivo è che la nostra Università diventi sostenibile dal punto di vista ambientale, sfruttando le competenze che abbiamo al nostro interno, utilizzando gli incentivi dello Stato e accedendo alle opportunità offerte dalle nuove regole del mercato dell’energia. Abbiamo messo la questione energetica e la diminuzione dell’impatto ambientale al centro del nostro programma di lavoro”. L’idea ha già convinto il WWF Italia che ha deciso di concedere il patrocinio.

fonte: rinnovabili.it

Fotovoltaico: prossimo l’impianto pubblico al 100%

Nei prossimi giorni saranno inaugurati i lavori destinati alla realizzazione dell’impianto fotovoltaico più grande d’Italia completamente pubblico. Il sito interessato dalla realizzazione dell’impianto, la cui conclusione è prevista entro un anno, è il piccolo Comune di Castel di Lama, in provincia di Ascoli Piceno, che così diventerà seconda solo alla provincia di Bolzano quanto a potenza energetica prodotta dalla tecnologia fotovoltaica. A darne l’annuncio lo stesso Primo Cittadino Patrizia Rossini, con l’appoggio dell’assessore all’ambiente Piero Mozzoni e il titolare della società che si è aggiudicata la gara d’appalto per la realizzazione dell’impianto Renato Ciarrocchi. L’impianto sarà dunque distribuito su tutti i principali edifici pubblici, iniziando dal Municipio per un totale di otto edifici, ciascuno dei quali sarà assortito con un impianto fotovoltaico autonomo per la produzione di energia elettrica; la potenza complessiva, relativa a tutti gli edifici, ammonterà a 1,5 MW. L’investimento previsto per la realizzazione dell’impianto, a carico della stessa società, è di 7 milioni di euro riconoscendo circa 85.000 euro l’anno all’Amministrazione Comunale, la quale risparmierà altri 25.000 euro l’anno di bolletta elettrica considerando anche solo tre degli otto edifici.

fonte: rinnovabili.it

Acqua, il diritto negato

“Ognuno ha diritto ad acqua sufficiente, sicura, accettabile, fisicamente accessibile ed economicamente sostenibile per uso privato e per uso domestico”. Queste parole rappresentano il diritto umano all’acqua, così come riportato nel Commento Generale del 2002 del Comitato Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC). Purtroppo questo diritto è un traguardo ancora lontano.
La realtà oggi è che più di un miliardo di persone nel mondo non ha accesso all’acqua potabile, e la metà della popolazione mondiale vive con meno di 1.000 metri cubi d’acqua pulita l’anno, ossia sotto il fabbisogno minimo stimato dall’ONU.
Il 71 per cento della superficie terrestre è ricoperto d’acqua, ma solo il 2,5 per cento di essa è dolce e quindi potenzialmente potabile. Il rimanente, infatti, si trova negli oceani e nei mari ed ha una salinità troppo elevata perfino per gli usi industriali, figuriamoci per quelli agricoli e domestici. Peraltro non tutta l’acqua dolce presente sulla Terra è immediatamente disponibile, perché la quasi totalità è contenuta nei ghiacci polari e nelle falde freatiche molto profonde, e soltanto meno dell’uno per cento si trova in laghi e fiumi ed è quindi facilmente accessibile.
Sebbene l’acqua dolce sia una risorsa limitata, se ne fa un notevole spreco. L’esplosione demografica e l’industrializzazione ne hanno aumentato il consumo mondiale di 45 volte negli ultimi tre secoli. L’agricoltura da sola utilizza più del 70 per cento di tutta l’acqua disponibile a causa di sistemi d’irrigazione antiquati. Ma anche le diverse attività industriali utilizzano quantità enormi di questa risorsa. Basti pensare che per produrre un paio di scarpe di cuoio ci vogliono addirittura 8.000 litri d’acqua e per una semplice T-shirt di cotone 2.000 litri.
Sono i Paesi industrializzati i maggiori consumatori e questo anche a causa della profonda disomogeneità nella distribuzione naturale delle riserve d’acqua dolce. Il 60 per cento di tali risorse si trova, infatti, in solo 9 Paesi e sono invece 80 le Nazioni, perlopiù in Africa settentrionale e Asia Occidentale, che si trovano in perenne stato di penuria.
La disuguaglianza nella distribuzione delle riserve idriche si riflette perciò sui consumi. Nel mondo occidentale industrializzato l’abbondanza d’acqua permette consumi pro capite molto elevati. Al contrario nei Paesi in via di sviluppo, spesso ubicati proprio nelle zone aride e semi aride del Pianeta, dove cade appena il due per cento delle precipitazioni globali, i consumi sono forzatamente limitati. Se per uso domestico un americano può consumare fino a 600 litri d’acqua al giorno, un bengalese arriva a mala pena a 45 litri al giorno.
Secondo l’autorevole ricerca Water Footprints of Nations del 2007, condotta dalla fondazione no-profit olandese Water Footprint Network, il primo Paese al mondo per consumo d’acqua sono gli Stati Uniti con 2.483 metri cubi pro capite l’anno, contro una media mondiale di 1.243 metri cubi l’anno. L’Italia non è da meno degli americani piazzandosi al secondo posto con 2.332 metri cubi l’anno, e presentando così i consumi idrici pro capite maggiori nell’Unione Europea.
È un dato significativo che i Paesi che consumano più acqua sono anche quelli che detengono la maggiore ricchezza globale. La differenza tra Paesi ricchi e poveri si misura quindi anche con l’accessibilità all’acqua e i suoi consumi.
La negazione del diritto all’acqua ha conseguenze spaventose. Stime dell’ONU riportano che ogni anno in tutto il mondo muoiono circa 8 milioni di persone per cause riconducibili alla sua carenza (solo nel 2006 ne sono morte ogni giorno 30.000).
Nei Paesi in via di sviluppo si muore non solo di sete, ma anche per malattie gravi e contagiose, come tifo, colera, salmonellosi, epatite, dissenteria, la cui insorgenza è associabile all’assenza d’acqua potabile e d’impianti fognari. La contaminazione da microrganismi patogeni del cibo e dei pozzi d’acqua e le scadenti condizioni igienico-sanitarie causano vere e proprie epidemie in molte regioni.
L’ONG svizzera Water Supply and Sanitation Collaborative Council stima che circa 1,2 miliardi di persone viva in case prive del sistema fognario e defechi perciò all’aperto, con tutte le conseguenze negative che questo comporta. E non succede solo nei Paesi del Sud del mondo. in Europa sono circa 140 milioni i cittadini che non hanno accesso ad acqua pulita e servizi sanitari, specialmente in Albania, Georgia, Montenegro e Macedonia.
Si muore anche per accaparrarsi l’acqua. Nelle zone più aride del Pianeta, infatti, l’acqua è diventata o un obiettivo strategico da colpire per indebolire l’avversario, o uno strumento di ricatto che serve a garantire la supremazia da parte di regimi nazionalisti.
“Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo avranno come oggetto del contendere l’acqua”. Il monito del 1995 di Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca mondiale, appare oggi più attuale che mai.
Dallo scontro diplomatico tra Turchia e Siria, che rischiò nel 1998 di sfociare in una guerra aperta a causa del primato turco sulle acque dell’Eufrate, a quello tuttora in corso dal 1996 tra Egitto da una parte ed Etiopia e Sudan dall’altra per le acque del Nilo, dalla secolare lotta tribale tra Masai e Kikuyu per l’uso delle acque del fiume Ewaso Kedong, fino al conflitto israelo-palestinese nel quale il controllo del fiume Giordano permette ad Israele di mantenere una posizione di predominio in una regione notoriamente arida, sono numerose nel mondo le guerre per l’acqua o in cui l’acqua gioca un ruolo determinante.
È lecito aspettarsi che nei prossimi anni s’inaspriranno gli attuali conflitti e ne scoppieranno altri laddove la scarsità e il dominio delle riserve idriche produrranno rivolte sociali e incidenti diplomatici.
L’emergenza acqua è dovuta a una congiuntura di fattori: da un lato continua a crescere la richiesta a causa dell’aumento non solo della popolazione mondiale, ma anche e soprattutto delle attività industriali (nell’ultimo secolo il tasso di crescita della popolazione è raddoppiato, ma il consumo d’acqua è aumentato di ben sei volte), dall’altro l’inquinamento delle fonti e i cambiamenti climatici stanno assottigliando la disponibilità di acqua pulita.
Le ingenti quantità di fertilizzanti e pesticidi usati in agricoltura, che finiscono direttamente nelle falde acquifere, di sostanze tossiche e di materia organica negli scarichi industriali e civili avvelenano sempre più riserve idriche, compromettendone, per di più, le capacità autodepurative. Il problema è particolarmente grave nei Paesi in via di sviluppo, dove non esistono impianti di trattamento delle acque inquinate.
Inoltre negli ultimi cinquant’anni è cambiata la distribuzione delle piogge con una diminuzione delle precipitazioni totali durante l’anno e con un aumento dei fenomeni intensi e di breve durata, che danno luogo ad un maggiore ruscellamento e ad un minore assorbimento da parte del suolo e di conseguenza a frequenti e più lunghi periodi di siccità. Si presume che tali cambiamenti siano stati innescati o comunque favoriti dall’aumento della concentrazione di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera, che ha raggiunto il valore più alto degli ultimi 700.000 anni (385 ppm).
La National Oceanographic Atmospheric Administration (NOAA), importante centro di ricerca americano sul clima, stima che nei prossimi anni si avranno nella stagione secca consistenti diminuzioni di piogge (20-40 per cento in meno) in Europa meridionale, Africa settentrionale e meridionale, sud-ovest degli Stati Uniti e Australia occidentale.
Il rischio è un’intensificazione del fenomeno di desertificazione nei climi temperati, con l’effetto di una significativa riduzione nella produzione agricola, aumento d’incendi e distruzione di interi ecosistemi.
La desertificazione sta colpendo soprattutto l’Europa meridionale: Spagna, Portogallo, Italia e Grecia ne soffrono già da lungo tempo, ma negli ultimi anni anche la Francia non ne è immune.
In Italia, in particolare, l’inasprimento degli eventi meteorologici estremi, cioè siccità e alluvioni, assieme ad un eccessivo prelievo dai corpi idrici e a pratiche agricole sempre più intensive e invasive, stanno incrementando talmente l’inaridimento dei suoli, che, secondo gli ultimi dati dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA), il 27 per cento del territorio nazionale può essere considerato a rischio di desertificazione.
Le Regioni più a rischio sono Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna, dove il sovrasfruttamento e il conseguente abbassamento del livello delle falde ha causato nelle zone costiere l’intrusione d’acqua marina nelle falde stesse, rendendo di fatto inutilizzabili alcune riserve idriche sotterranee.
Si calcola che entro il 2025 tre miliardi e mezzo di persone (la metà della popolazione mondiale) dovranno affrontare gravi carenze d’acqua: è perciò urgente trovare soluzioni immediate per arginare il problema.
A differenza delle altre materie prime, l’acqua non è sostituibile e neppure è conveniente, da un punto di vista economico, trasportarla a grandi distanze. Quindi le soluzioni attuabili devono necessariamente prevedere direttamente in loco, laddove cioè si presenta la penuria, una maggiore produzione di acqua potabile e un minore spreco.
La desalinizzazione dell’acqua di mare potenzialmente potrebbe risolvere il problema della siccità nel mondo, garantendo un maggiore approvvigionamento. La tecnica oggi più utilizzata è quella dell’osmosi inversa che consiste nel far passare l’acqua attraverso speciali membrane filtranti. Tale tecnica, per quanto sia meno dispendiosa da un punto di vista energetico rispetto all’evaporazione, richiede comunque ben 6 chilowattora per produrre un metro cubo d’acqua, una quantità di energia piuttosto elevata, che rende costoso il trattamento. I costi comunque, grazie ai miglioramenti tecnologici, incominciano a scendere e la produzione di acqua desalinizzata nel mondo, che oggi si attesta all’uno per cento di tutta l’acqua potabile, è in crescita.
Ma nei Paesi poveri, dove mancano mezzi e soldi per la costruzione di qualsiasi infrastruttura, forse sono più facilmente e immediatamente attuabili soluzioni più semplici, che si rifanno alle antiche tecniche di raccolta e conservazione dell’acqua piovana.
Nello Stato indiano del Rajastan, per esempio, opera da alcuni anni l’organizzazione non governativa Tarun Bharat Sangh, che fornisce consulenza ingegneristica per la costruzione di piccole dighe in terra battuta. Le johad, così sono chiamate in Hindi questo tipo di dighe e i relativi bacini idrici, servono a raccogliere le piogge monsoniche e a combattere la sete nei piccoli e sperduti villaggi dell’India, dove i prolungati periodi di siccità rendono la terra troppo dura e secca per essere arata. Sono sorte già più di 4.500 johad in 1.000 villaggi, tutte costruite dagli abitanti della zona e con materiali trovati in loco. Una volta costruita la diga, il controllo dell’acqua è affidato alla popolazione locale, che quindi, essendo responsabilizzata, si prenderà cura nel tempo della propria johad. È un bel esempio di sviluppo sostenibile.
Gli sprechi maggiori d’acqua avvengono in agricoltura, che nei Paesi industrializzati arriva ad utilizzare fino all’80 per cento di tutta l’acqua dolce disponibile. Le tecniche tradizionali d’irrigazione, infatti, non tengono conto né dell’umidità, né della capacità di assorbimento dei terreni, perciò l’acqua irrigata per la maggior parte evapora o si disperde in superficie e la percentuale di spreco risulta così molto alta.
Per abbattere tali sperperi si possono utilizzare gli impianti a microgoccia, tecnologia ormai consolidata, che consente di portare solo la quantità d’acqua necessaria alle piante e solo dove serve, ossia alle radici, evitando le perdite per evaporazione e dispersione. Oltre all’acqua, con questo sistema si possono fornire alle piante nutrienti e fosfati, che andando direttamente alle radici, non si disperdono nel terreno e non vanno ad inquinare le falde.
Tutte le soluzioni per migliorare l’accesso all’acqua e per economizzare il suo uso sono state discusse e concordate da capi di Stato e ministri di 155 Paesi nel V Forum Mondiale dell’Acqua, tenutosi quest’anno a Istanbul, in concomitanza con la Giornata Mondiale dell’Acqua (il 22 marzo), ricorrenza annuale istituita dalle Nazioni Unite nel 1992 per promuovere all’interno di ciascun Paese azioni concrete per combattere l’emergenza acqua.
Il Forum è un incontro internazionale organizzato ogni tre anni dal Consiglio Mondiale dell’Acqua (organo della Banca Mondiale), in cui esperti e ministri dell’ambiente si confrontano sulle scelte per tutelare l’acqua, la cui legittimità non è però riconosciuta dalle ONG che contestano la forte influenza delle lobby industriali.
Nel documento finale di quest’anno, infatti, sono stati presi solo impegni generici, riconoscendo sì il “bisogno all’acqua”, ma perdendo ancora una volta l’occasione per affermare il “diritto all’acqua”. Sono state deluse, perciò, le aspettative delle delegazioni dei Paesi africani, asiatici e latinoamericani, ma anche della Francia, che con il proprio ministro dell’ambiente, Chantal Jouanno, ha polemizzato apertamente contro il testo conclusivo del Forum.
I Governi mondiali si sono di nuovo piegati alla volontà delle multinazionali dell’acqua fortemente determinate a mantenerne il controllo per non perdere i propri introiti.
L’acqua rimane un diritto solo di chi può pagarla e l’obiettivo fissato dall’ONU di dimezzare entro il 2015 la percentuale di popolazione che non ha accesso ad acqua potabile e sanitaria, per ora appare soltanto come l’illusione di un assetato che vede un lago nel deserto. Un miraggio.

fonte: rinnovabili.it

Cellulari poco ecologici così difficili da smaltire

C'È chi vorrebbe distruggerlo perché squilla troppo, c'è invece chi vorrebbe vederlo sparire per quella telefonata che non arriva mai. C'è poi chi lo getta via solo per acquistarne uno nuovo. Qualunque sia la fine di un telefonino, il vero problema è che non sarà facile distruggerlo e soprattutto riciclarlo. Lo dimostra un'inchiesta di Altroconsumo pubblicata nel numero di maggio che ha preso in esame 19 apparecchi tra le marche più diffuse (9 monoblocco e 10 a scorrimento) e ne ha verificato l'impatto ambientale: il risultato è che oltre la metà non sono riciclabili e quindi ecocompatibili.

L'inchiesta, precisa l'associazione di consumatori, intende valutare la compatibilità ambientale delle diverse fasi del ciclo di vita del telefonino, dalla produzione, imballaggio, accessori, consumi e smaltimento, limitandosi a fotografare il fenomeno senza voler dare valutazioni sui prodotti, di cui non indica nemmeno il prezzo.

"Il rischio ecologico è fondato", scrive Altroconsumo spiegando con alcune cifre l'entità del pericolo: "per costruire 100 grammi di telefonino occorrono 30 chilogrammi di materiali, molti dei quali tossici e dannosi per l'ambiente". Ancora più imponente il mercato della telefonia mobile che produce esemplari a getto continuo: "Solo in Italia si vendono 17 milioni di cellulari all'anno, apparecchi dalla vita brevissima: mediamente 18 mesi".

I produttori di telefonini lavorano su estetica e hi-tech senza dare alcun valore a "questioni ambientali o all'impatto negativo delle loro scelte". Dal punto di vista normativo, precisa l'inchiesta, "nessuno dei 19 cellulari esaminati presenta problemi, tutti i produttori rispettano la legge". Ed è proprio la legislazione "ancora troppo permissiva" l'anello debole su cui punta il dito l'associazione dei consumatori.

L'esame dei telefonini è iniziato con l'analisi e il peso dei materiali a partire dalle confezioni, cavetti e accessori compresi. Poi si è passati alla fase di smontaggio delle varie componenti, quindi il cellulare è stato sminuzzato in particelle di 4 millimetri per poter effettuare l'analisi chimica per rilevare la presenza di sostanze nocive.

Decisiva nella valutazione la presenza di piombo e di metalli nocivi non contemplati nella normativa Ue, come il nichel, riscontrato in "quantità significativa" in 12 modelli su diciannove, pur essendo un metallo da evitare, scrive Altroconsumo, "perché può sviluppare reazioni allergiche (non sugli utenti, ma su chi ne entra in contatto in fase di produzione o smaltimento)". Stesso discorso per la presenza di composti organici volatili (Cov), "sostanze contenute in colle, vernici e plastiche mal fatte che vengono poi rilasciate per lenta emissione" che dimostrano l'uso di materiali scadenti che "rappresentano un limite alla riciclabilità degli apparecchi, oltre che un rischio per i lavoratori".

Passando alla fase di smaltimento, Altroconsumo spiega che "un telefonino facilmente smontabile si traduce nella possibilità di riciclare le varie parti che lo compongono". Purtroppo, prosegue l'inchiesta, "questa condizione si verifica solo nel 50 per cento degli apparecchi, sia perché sono difficilmente smontabili (le componenti non sono tenute insieme a incastro ma per mezzo di colle e viti) sia per la natura intrinseca dei materiali usati, non riciclabili".

Che sia possibile limitare l'uso di sostanze nocive, sottolinea l'inchiesta, lo dimostra il Motorola W230, unico telefonino che ha passato il test con il segno + (equivalente a Buono). Gli altri esemplari che hanno raggiunto la sufficienza (Accettabile) sono monoblocco, in gran parte prodotti in Cina: Sony Ericsson J120i, Sony Ericsson T280i, Lg Kp130, Lg Kp100, Nokia 1650, Samsung Sgh-M110, Samsung Sgh-C180. Tra i monoblocco l'unico "Mediocre" risulta il Nokia 2600 Classic. Tra quelli a scorrimento l'unico "Accettabile" è Lg Kf 600, tutti gli altri passano il test con "Mediocre" (Samsung Sgh-F330, Motorola RizrZ8, Samsung Sgh-U700, Sony Ericsson W580i, Nokia 6210 Navigator, Sony Ericsson W760i, Lg Km500, Motorola MotoZ10, Nokia 7610Supernova).

L'inchiesta dimostra in maniera evidente che i modelli a scorrimento sono "meno ecocompatibili" di quelli monoblocco. Altroconsumo si augura quindi che le aziende migliorino il loro status ecologico e suggerisce alcuni obiettivi da raggiungere con il minimo sforzo: sostituire il caricabatterie con un caricatore usb, vendere separatamente gli accessori e renderli utilizzabili su tutti i modelli, ridurre la confezione e i manuali, usare solo plastiche riciclabili e rendere possibile l'uso di due sim card contemporaneamente per evitare un secondo telefonino. Infine, il cellulare fuori uso non va gettato nella spazzatura ma nelle "piazzole ecologiche" allestite dalle aziende di nettezza urbana oppure, quando è possibile, consegnarlo al negozio dove si è acquistato il nuovo telefonino.

fonte: repubblica.it

Così il popolo delle renne vince la guerra del petrolio

Le renne trotterellano compatte come un nugolo di storni quando da un boschetto di betulle nane s'alza in volo una coppia di cigni selvatici. Il sole è tramontato da più di un'ora ma il cielo dell'artico norvegese è ancora rosa pallido. "Quest'anno la primavera è in anticipo", dice Isak Mathis Triunf, insaccato nel suo pesk, la pelliccia dei popoli del nord. Isak ha il viso cotto dal freddo, gli occhi chiarissimi.

Da ore, a cavallo di una motoslitta, sta cercando di contenere la mandria, tagliandole la strada quando questa punta nella direzione sbagliata. In poche settimane la temperatura è salita da 50 a 20 gradi sotto zero e le renne scalpitano: vorrebbero migrare verso la costa, dove i pascoli sono più abbondanti e tra un paio di mesi i venti marini le proteggeranno da zanzare grosse come polli. Ma la transumanza, così ha stabilito il parlamento lappone, comincerà soltanto a metà maggio.

Intanto, a poche centinaia di chilometri da qui, i potenti del pianeta stanno per dare inizio al "Great game" petrolifero del prossimo decennio. L'inarrestabile scioglimento dei ghiacci al Polo nord apre nuove rotte per le superpetroliere russe e presto consentirà lo sfruttamento di enormi giacimenti nascosti sotto il pack. "Ho paura", dice Isak. "Per colpa di lupi, aquile, ghiottoni e linci perdiamo tre cuccioli di renna su dieci. Se adesso ci si mettono anche i petrolieri, il nostro avvenire di allevatori sarà davvero a rischio".

Nel terzo millennio, i lapponi, o meglio, i sami, come preferiscono chiamarsi, sono entrati prepotentemente nella modernità: controllano le renne solo con le motoslitte e, anche tra i blizzard che spazzano la tundra, tengono sempre il cellulare incollato all'orecchio. D'estate guidano potenti 4x4 e per radunare le mandrie capita perfino che usino l'elicottero. Il loro passaggio da una vita semi-nomade alla cultura dell'informatica è stato immediato. "Ma sotto questa patina tecnologica c'è uno stile di vita ancestrale, senza il quale gli allevatori di renne non saprebbero fronteggiare né i capricci di animali addomesticati solo per metà né le bizze di un clima feroce", spiega il linguista Ole Henrik Magga, che è stato dal 1989 al 1997 il primo presidente del Parlamento Sami in Norvegia.

Nei secoli, per sopravvivere in un ambiente così impietoso i sami hanno sviluppato un forte senso di adattabilità. Più recentemente, da una democrazia ricca e illuminata come quella norvegese, grazie a questa virtù sono riusciti a strappare leggi con cui oggi possono far valere i loro diritti. Eppure, tra il 1850 e il 1970, la "norvegizzazione" è stata brutale. Ai sami era proibito parlare la loro lingua. I bambini venivano strappati alle famiglie. Gli adulti furono di forza assimilati alla vita occidentale. Solo pochi poterono continuare a lavorare con le renne. Quei pochi che divennero i custodi della cultura sami. "Una volta i norvegesi ci consideravano ignoranti, stupidi, accattoni", ricorda Magga.

Ma le cose sono cambiate. A giorni, sarà inaugurato a Kautokeino il nuovo edificio dell'Università Sami. Ospiterà cattedre di letteratura, pedagogia e scienze naturali, con lezioni dove le antiche pratiche della pastorizia dovranno combaciare con la biologia moderna. La struttura è costata 50 milioni di euro, tutti sborsati dal governo di Oslo. "I norvegesi ci hanno rubato i pesci nei nostri mari, gli alberi delle nostre foreste, la terra, l'oro, i diamanti. Finanziando l'università ci restituiscono una piccola parte di queste ricchezze", dice ancora il professor Magga.

Come spiega Rune Fjellheim, il Parlamento Sami che dirige a Karasjok ha recentemente bocciato un progetto di nuove attività minerarie presentato da Oslo. "Abbiamo posto una condizione allo scavo di miniere sul nostro territorio: che ci venga versata parte dei proventi ricavati dalle future estrazioni", dice Fjellheim. Lo stesso discorso vale per le piattaforme petrolifere al largo delle coste della Lapponia. Ma quando chiediamo al ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr Støre, se queste richieste gli sembrano legittime, ecco cosa risponde: "No, perché si tratta di risorse off-shore in zone economiche norvegesi. E poi i sami sono norvegesi. Rientrano quindi nel nostro sistema di ridistribuzione delle ricchezze".

Un quarto delle risorse petrolifere del pianeta si trova nelle regioni artiche. Ora, delle otto nazioni che circondano il Polo, sette sono abitate da popoli indigeni: sami, inuit, nenet russi, aleutini e via elencando. Ma, come sostiene il direttore del centro studi sami Galdu, Magne Ove Varsi, tutte le decisioni che riguardano quelle regioni vengono prese a Mosca, Oslo o Washington. "Vorremmo negoziare anche questioni che riguardano le risorse "nazionali", e non limitarci ad esprimere un parere consultivo". Per trovare un equo compromesso tra sami e imprenditori basterebbe forse attingere alle ricche casse dello stato scandinavo. Amministrando sapientemente gli introiti di gas e petrolio, la Norvegia è infatti diventata la nazione più ricca del pianeta (tra i paesi con più di un milione di abitanti). "Noi sami rappresentiamo appena l'1,5% della popolazione norvegese e i sussidi che ci versa il governo di Oslo non superano l'1 per mille del totale: per tacitare gli scontenti basterebbe aumentare queste indennità", sostiene Varsi.

Sono le undici quando finalmente comincia ad annottare. Chiediamo a Isak se si sente almeno un po' norvegese. "Direi di no. Ma con i norvegesi mantengo ottimi rapporti". Alle tre del mattino, l'allevatore risale sulla motoslitta perché le renne hanno ripreso a muoversi. Prima di uscire all'addiaccio dice: "Negli ultimi anni abbiamo vinto molte battaglie. Ma non possiamo abbassare la guardia". Il mostro è sempre dietro l'angolo.

fonte: repubblica.it

Ad aprile torna a salire l'inflazione

L'inflazione ad aprile è salita all'1,3%, dall'1,2% di marzo, su base annua. Lo comunica l'Istat, nella stima preliminare, aggiungendo che su base mensile i prezzi al consumo sono aumentati dello 0,3%. A livello tendenziale, il dato segna il primo rialzo, per quanto marginale, dopo sette mesi di tendenza al rallentamento.

SERVIZI - L’accelerazione dell'inflazione è dovuta alla dinamica del settore servizi, che passa da +1,7% a +2,2%, e ad un rallentamento nel settore dei beni che passa da +0,8% a +0,5%. Nel mese di marzo la crescita dei prezzi era stata dello 0,1% su base congiunturale e dell’1,2% su base tendenziale.

COMPARTI - Gli aumenti congiunturali più significativi dell'indice dei prezzi per l'intera collettività si sono verificati per i capitoli «Servizi ricettivi e di ristorazione» (+1,1%), «Trasporti» (+0,9%) e «Comunicazioni» (+0,4%); variazioni nulle si sono registrate nei capitoli «Abbigliamento e calzature» e «Istruzione». Variazioni negative si sono verificate nei capitoli «Abitazione, acqua, elettricità e combustibili» (-0,5%) e «Ricreazione, spettacoli e cultura» (-0,2%). Gli incrementi tendenziali più elevati si sono registrati nei capitoli «Bevande alcoliche e tabacchi» (+5,1%), «Prodotti alimentari e bevande analcoliche» (+2,7 %) e Altri beni e servizi (+2,6%)

fonte: corriere.it

Polo sud, la piattaforma Wilkins si spezza

Le immagini dell' Esa -l' agenzia spaziale europea -mostrano grossi iceberg staccarsi dal «Wilkins ice shelf » (GUARDA), una piattaforma di ghiaccio che si trova nella penisola Antartica. I ricercatori hanno affermato che il «Wilkins ice shelf» -grande quanto la Giamaica- è ha rischio di disgregarsi completamente nelle prossime settimane. La piattaforma è rimasta perlopiù stabile nel corso dell'ultimo secolo, ma ha cominciato a ritrarsi negli anni '90. Il «Wikins ice shelf» era tenuto insieme da un «ponte» di ghiaccio che legava l'isola di Charcot alla terra ferma Antartica. Ma in seguito al crollo del ponte avvenuto nelle scorse settimane, le fratture nel lato nord della piattaforma si sono ampliate e altre si sono formate per l'assestamento del ghiaccio. Secondo i dati del satellite, i primi iceberg si sono staccati venerdì scorso e da allora circa 700 km quadrati di ghiaccio sono caduti in mare.

RISCALDAMENTO GLOBALE - « Ci sono pochi dubbi sul fatto che questi cambiamenti sono il risultato del riscaldamento dell'atmosfera nella penisola Antartica, che è stato più rapido nell'emisfero sud», ha affermato David Vaughan, ricercatore del British Antarctic Survey. « Otto piattaforme di ghiaccio lungo la penisola Antartica hanno mostrato segni di rottura negli ultimi decenni e il distaccamento del «Wilkins ice shelf» è l'ultimo e il più grande della serie» spiega lo scienziato. La piattaforma ha perso il 14 % della sua massa nel corso dello scorso anno. Secondo i dati, negli ultimi 50 anni le temperature medie nella penisola Antartica sono aumentate di due gradi e mezzo, un aumento superiore alla media globale. Nelle prossime settimane gli scienziati ritengono che il «Wikins ice shelf» perderà circa 3,3370 km quadrati di ghiaccio, un'area grande quasi quanto il Lussemburgo. La rottura delle piattaforme antartiche non provoca in sé l'aumento del livello degli oceani, perché il ghiaccio non si scioglie ma continua a galleggiare, ma insieme all'aumento della temperatura dell'acqua è un importante indicatore del cambiamento climatico in atto nel pianeta.

fonte: corriere.it

Navi dei veleni, in Calabria rifiuti radioattivi trovati in un torrente

Sarebbero decine e decine i morti nella zona del Tirreno cosentino provocati dalla presenza di rifiuti radioattivi provenienti dall'affondamento del mercantile Rosso, avvenuto nel 1990 al largo di Amantea (Cosenza). In realtà la motonave non riuscì ad affondare e il mare mosso in quella notte del 14 dicembre del '90 la spinse sulla spiaggia di Campora San Giovanni. Sulla vicenda sta svolgendo un'inchiesta la procura della Repubblica di Paola. L'indagine ha portato all'individuazione dell'area in cui sono stati depositati illecitamente i rifiuti radioattivi.

Il sito si trova nell'alveo di un torrente nel comune di Serra d'Aiello. Le persone che sono decedute erano affette da neoplasie che sarebbero state provocate, secondo quanto è emerso dagli accertamenti, dalla radioattività dei rifiuti. L'inchiesta della Procura viene svolta col supporto di rilevazioni scientifiche affidate ad esperti chimici ed altro personale specializzato che hanno presentato una serie di perizie ora al vaglio dei magistrati. Scopo dell'inchiesta è di accertare le responsabilità legate all'occultamento dei rifiuti e di procedere, al contempo, alla bonifica del territorio contaminato dal materiale radioattivo. Le risultanze sono state comunicate alle autorità sanitarie locali e regionali per i provvedimenti di competenza.

fonte: lanuovaecologia.it

Porto Tolle andrà a carbone Blitz al ministero Ambiente

Blitz di Greenpeace e Legambiente questa mattina a Roma per dire no al carbone a Porto Tolle. Le due associazioni hanno srotolato dalle finestre del ministero dell’Ambiente uno striscione di 9 metri “No al carbone” e innalzato una ciminiera fumante sul marciapiede sottostante, in occasione del voto odierno in plenaria della Commissione VIA (Valutazione d’Impatto Ambientale) del ministero. “Il via libera alla riconversione a carbone della centrale termoelettrica Enel di Porto Tolle in discussione in Commissione VIA regalerà all’Italia altri 10 milioni di tonnellate di emissioni di CO2, contro gli obiettivi europei per la riduzione delle emissioni entro il 2020” dichiarano Greenpeace e Legambiente.

“Il voto odierno va in direzione diametralmente opposta a quella annunciata dal ministro Prestigiacomo solo qualche giorno fa a Siracusa al G8 Ambiente sui mutamenti climatici, dove ha sottolineato la necessità e l’urgenza di interventi di riduzione dei gas climalteranti - commentano Greenpeace e Legambiente -. Un atteggiamento veramente schizofrenico da parte del nostro governo, che evidentemente negli incontri internazionali presenta la maschera ragionevole di chi vuole combattere il global warming e in casa scopre il volto becero di chi autorizza nuove centrali a carbone”.
Prima della votazione, attivisti di Greenpeace e Legambiente hanno consegnato al presidente e ai membri della Commissione Via un volantino che recita “Carbone a Porto Tolle? Il tuo voto favorevole aumenta le emissioni di gas serra e condanna il delta del Po. Non diventare killer del clima!”. La conversione a carbone della centrale Enel di Porto Tolle, nel bel mezzo di un parco naturale patrimonio dell’Umanità per l’Unesco comporterà, infatti, impatti devastanti per il delicato ambiente del Delta del Po, come il passaggio di 3000 chiatte all’anno per portare il carbone all’impianto. La riconversione del nuovo impianto inoltre, aggiungerà 10 milioni di tonnellate di CO2 ai ritardi dell’Italia rispetto agli obblighi di riduzione previsti dal Protocollo di Kyoto e dal “pacchetto clima” europeo, appena firmato dall’Italia.
“Finiamola con la presa in giro del carbone pulito – continuano Greepeace e Legambiente – anche avvalendosi delle migliori tecnologie, i nuovi impianti a carbone hanno emissioni più che doppie rispetto a quelle di un ciclo combinato a gas: 770 grammi di CO2 per kilowattora prodotto, contro i 365 grammi del gas”. La conferma è che nel 2007 le 12 centrali a carbone attive nel nostro Paese hanno prodotto il 14% dell’energia elettrica complessiva, e il 30% delle emissioni di anidride carbonica dell’intero settore elettrico.

fonte: lanuovaecologia.it

Cremonesi (Acea) entro il 2011 a Roma 50MW da fotovoltaico

Giancarlo Cremonse, il presidente del Cda dell’Acea Spa nel suo intervento parlando del fotovoltaico all’assemblea degli azionisti Acea a Roma ha dichiarato che: “Dai 4 megawatt del 2008, nel 2009 si dovrebbe arrivare ai 24 megawatt e speriamo di arrivare entro il 2010-2011 a 50 megawatt di produzione”.
“Il Comune – ha precisato Cremonesi – ha dichiarato la sua disponibilità a fare questo’‘. Poi in merito alla possibilità di creare un parco a Castel di Guido, il presidente Acea ha specificato che potrebbe essere una delle soluzioni. forse non la più adeguata, dal momento che il Comune a Roma dispone di svariate proprietà.
Questo obiettivo, richiede necessariamente “l’impegno del Comune di Roma che ci ha dimostrato di voler mettere in funzione quanti più impianti possibili sui tetti degli edifici pubblici. – ha concluso Cremonesi – E’ chiaro che se vogliamo arrivare ai livelli significativi di energia prodotta dobbiamo mettere in funzione parchi da almeno 20-25 megawatt”.

fonte: rinnovabili.it

In Germania l’impianto di biometano più grande d’Europa

Sorgerà in Baviera e più precisamente a Kallmünz, nel distretto dell’Alto Palatinato, l’impianto di biometano più grande d’Europa nel suo genere. Il progetto, equivalente a 5 MW elettrici, nasce dell’accordo tra la società Schmack Biogas e il distributore di energia RENION Biogas GmbH & Co. KG e non si limita a superare per capacità della centrale di Schwandorf, attuale detentrice del primato (costruita sempre da Schmack ma per conto E.ON), ma lo farà nel completo rispetto dell’ambiente; verranno utilizzate, infatti, circa 43.500 tonnellate di diverse biomasse, tutte prodotte annualmente entro un raggio di 20 km.
Funzionanti sostanzialmente come impianti per la produzione di biogas, quelli di biometano al termine del processo possiedono un sistema di depurazione che elimina l’anidride carbonica e purifica il gas, in modo da ottenere un metano identico a quello fossile, che può essere immesso in rete, anziché bruciare il gas tramite cogeneratore per produrre elettricità.
Il cantiere verrà aperto nei prossimi giorni ed una volta realizzato sarà poi ceduto ad una società composta al 50% dalla stessa REWAG ed al 50% da E.ON Bayern, la sede regionale bavarese del colosso tedesco dell’energia.

fonte: rinnovabili.it

Paraguay: simposio sull'inquinamento da allevamenti di animali

La FAO, l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni Unite (Food and Agriculture Organization of the United Nations) ha organizzato nei giorni 5 e 6 maggio, ad Asunción in Paraguay, un Simposio dedicato alla mitigazione dei gas serra che sono prodotti dagli allevamenti animali (Symposium: “Mitigating green house gas emissions from animal production: A policy agenda”).
Studi recenti hanno dimostrato come alcune volte le emissioni “naturali”, soprattutto di gas metano, da parte degli animali possano essere nella loro totalità un contributo al riscaldamento dell’atmosfera terrestre almeno pari a quello del settore dell’autotrasporto o di altri ambiti industriali. Esperti nel campo e politici discuteranno gli aspetti della mitigazione legati alle industrie della carne e casearia, compresi alcuni casi di studio, le misure politiche, gli sviluppi sociali e le possibili raccomandazioni.

fonte: rinnovabili.it

Borse, Tokyo in forte guadagno Bene anche i "future" europei

Chiusura in forte rialzo per la Borsa di Tokyo, spinta dagli ultimi dati incoraggianti per l'economia globale che offrono segnali di ripresa. L'indice Nikkei ha guadagnato il 3,94% e si è attestato a quota 8.828,26.

La giornata, che parte bene, si presenta positiva anche sui mercati europei. I "future" delle piazze del vecchio continente sono tutti col segno "più". Il mese d'aprile si presenta come uno dei migliori da molti anni a questa parte

fonte: repubblica.it

mercoledì 29 aprile 2009

Allarme nel Mediterraneo In Spagna la medusa-killer

La chiamano la "medusa assassina" e il soprannome non è di quelli che mettono il buon umore se si pensa che è appena sbarcata nel Mediterraneo. L'allarme arriva dalla Spagna perché la "caravella portoghese", che in realtà è un aggregato di quattro organismi, abita nell'Atlantico e ha sfruttato i venti propizi e la piccola vela naturale di cui dispone per ottenere un passaggio verso i mari caldi. Il rischio è che si trovi bene, riesca a riprodursi con successo e decida di restare.

Al momento nessuno può dire se questo scenario di convivenza forzata con un ospite marino poco gradito sia destinato a trasformarsi in realtà. Anche perché per ora è difficile calcolare la consistenza numerica delle truppe d'invasione. La Physalia phisalis, questo è il nome scientifico, è stata avvistata per la prima volta tre settimane fa davanti a Malaga. E un paio di giorni fa era già all'altezza di Murcia avendo percorso un bel tratto di mare verso la Francia.

Ritrovarsela in acqua durante l'estate non sarebbe piacevole anche perché è una medusa ingannatrice. Il corpo è piccolo, non più di 20 - 30 centimetri, ma i tentacoli sono estremamente sottili, fili insidiosi lunghi fino a 30 metri: difficile per chi fa il bagno accorgersi di un pericolo concentrato in pochi millimetri di membrana così distante dalla "testa" dell'animale. Ma è anche difficile scordarsi un eventuale impatto: oltre al bruciore immediato vanno messi nel conto tachicardia, sudorazione accentuata, spasmi muscolari e qualche difficoltà respiratoria. Secondo il Centro oceanografico Ignacio Franco, tra il 30 e il 50 per cento delle persone colpite da questa medusa finisce all'ospedale. E, in casi di allergia, si rischia anche la morte.

L'Istituto spagnolo di oceanografia precisa che non è la prima volta che la Physalia phisalis fa il suo ingresso nel Mediterraneo ed è probabile che anche questa volta la sua incursione sarà di breve periodo. Ma già in passato ci sono stati momenti in cui si è moltiplicata creando seri problemi sulle spiagge spagnole.

"Oggi le probabilità di una proliferazione delle meduse è aumentata a causa di vari fattori", spiega Silvano Focardi, rettore dell'università di Siena. "In questo caso l'elemento più importante è l'alterazione della catena alimentare determinata dalla scarsità di predatori. Con l'eccesso di pesca abbiamo tolto dal mare i pesci e le tartarughe che mangiavano le meduse e ci troviamo così di fronte a una presenza che non viene più contenuta in modo naturale"

fonte: repubblica.it

Crescita vs pauperismo: gli occhi dell´Italia non vedono lontano

In tutto il mondo, non solo negli Usa governati da cento giorni da Barack Obama, è in atto una riflessione su quale possa essere il nuovo paradigma economico necessario per affrontare a partire dalla crisi economica i cambiamenti epocali che abbiamo di fronte. Anche in Europa si assiste infatti a un fiorire di commissioni, cui partecipano economisti, studiosi, politici e istituzioni , che si interrogano su quali siano i necessari prodromi per costruire un nuovo modello economico che sia in grado di garantire benessere all’umanità mantenendo in vita l’elemento essenziale perché questa garanzia possa essere data, ovvero il capitale naturale.

Senza preservare infatti l’elemento cui si poggia l’intera economia, l’economia stessa è una disciplina ( o una scienza a seconda di come la si pensi) destinata all’obsolescenza e all’inutilità.
Vedi il rapporto Stern, del governo Blair, o la commissione per lo Sviluppo sostenibile del governo del Regno Unito, o quella voluta dal presidente francese Nicholas Sarkozy e presieduta da Joseph Stiglitz , Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi, tanto per fare qualche esempio.

Solo nel nostro paese questo dibattito non viene affrontato con la necessaria autorevolezza e spesso rischia di cadere in un confronto tra conservatori delle proprie rendite di posizione culturali, senza cioè che si faccia il minimo sforzo per apprendere nuovi elementi con cui costruire un rinnovato punto di vista.
Un esempio di questo approccio ci viene oggi dalla lettura dei giornali in cui troviamo, ma non è solo di oggi, il contrapporsi di due modi di vedere le cose che niente di fresco portano al dibattito su come costruire un nuovo modello che non si rifaccia né al pauperismo o alla nostalgia del tempo andato né al mantenimento del paradigma economico che ha al suo baricentro il totem della crescita come cifra per poter poi pensare anche al resto, all’ambiente in particolare, ma che tenti invece di imboccare la strada per dare una risposta alla crisi economica e a quella ecologica assieme, che rimanda cioè all’economia ecologica.

Il dialogo che ci propongono Olmi e Petrini su Repubblica, due persone emerite per la cultura del nostro paese, che invocano il ritorno alla terra come ricetta taumaturgica per liberarsi dalle pastoie dell’attuale modello consumistico e per recuperare l’essenza del vivere, pone il futuro sotto una chiave bucolica che se anche da una parte può essere visto come un bagno purificatore per la società del benessere occidentale, difficilmente potrà dare risposte a quella parte di mondo che ancora la scorpacciata di quel benessere non l’ha fatta e che vorrebbe affacciarsi alla tavola dove sino ad ora hanno mangiato, e si sono abbuffati, altri a loro spese.

Così come il richiamo alla necessità che «i consumatori cinesi facciano il loro dovere, cioè consumino» come spiega Alberto Alesina in un suo editoriale sul sole 24 ore e aggiunge «che lo facciano più che possono nei prossimi mesi» perché questo garantirà la ripresa economica, e una volta ottenuta «quando fra un anno o due la crisi sarà passata» la Cina e il resto del mondo potranno preoccuparsi dell’ambiente, è una visione arcaica della sostenibilità.

Un approccio che si ostina a non voler vedere come l’economia sia sottordinata al sistema naturale, e quindi l’ambiente come una matrice da sfruttare per produrre sviluppo e ricchezza, necessari per poterlo ripulire dopo averlo lordato, ma non come l’elemento prioritario senza il quale l’economia stessa non è data.

«Diciamolo a chiare lettere - dice Alesina - se uscire dalla crisi nel 2010 significasse inquinare ancora per una anno ai ritmi attuali, facciamolo pure. Poi, con calma, usciti dalla crisi e dal rischio di una lunga depressione, ci dedicheremo con rinnovato vigore a proteggere l’ambiente. A quel punto ne varrà la pena senz’altro, anche se costerà un po’ di crescita del Pil. Che allora (probabilmente) non sarà più in rosso».

Quindi perché investire oggi, quando serve di rimettere immediatamente in moto la locomotiva dello sviluppo, in tecnologie verdi che potrebbero, semmai domani, dare esiti positivi ma non certo effetti immediati?
Un approccio che tradisce una visione classica dell’economia che non riesce a svestire i panni della crescita come must e come unica ricetta dello sviluppo capace di risolvere una crisi con gli stessi strumenti che l’ha creata.

Cui risponde l’approccio che vede la tecnologia e la ricerca come «potente fattore di crescita» come spiega Innocenzo Cipolletta sempre oggi sul quotidiano economico, non tanto però per innescare germi utili a chiudere il saldo tra crisi economica e crisi ambientale, ma perché la ricerca «rende obsoleti i beni e i servizi che imprese e famiglie utilizzano, indicendo a fenomeni di sostituzione accelerata» e quindi «dei consumi di tutte le famiglie in tutto il mondo».

Ma se è indubbio che innovazione e ricerca sono due elementi indispensabili da mettere in campo per costruire uno sviluppo più durevole e in grado di portare benessere a chi non ce l’ha, è altrettanto indubbio che è indispensabile orientarli verso una direzione capace di tenere in conto del capitale naturale di cui disponiamo ora, e che non è detto che possa ancora essere disponibile dopo, se continuiamo ad eroderlo con la stessa velocità con cui lo abbiamo fatto sin qui.

E proprio perché, come dice giustamente Cipolletta, «le crisi, con i loro disagi, agiscono anche da grandi acceleratori d’innovazioni» ecco che è importante ora dare il giusto orientamento alla ricerca e all’innovazione, per rilanciare una economia e far ripartire la locomotiva, mettendola però sui binari giusti, per evitare che si ritrovi, da qui a poco, su un binario morto.

Quello che serve adesso e proprio ora è cioè una visione mutata di quale debba essere la strada da percorrere, e per dirla con le parole di Herman Daly, citato poco tempo fa da Gianfranco Bologna su questo giornale, «il mutamento di visione necessario consiste nel rappresentare la macroeconomia come un sottosistema aperto di un ecosistema naturale non illimitato (l’ambiente), anziché come un flusso circolare isolato di valore e scambio astratto, non vincolato da equilibri di massa, entropia ed esauribilità».
Una visione che purtroppo non si ritrova nel dibattito in corso nel nostro paese.


fonte: greenreport.it

RINNOVABILI: 100 MILA POSTI DI LAVORO VERDI

La produzione di energia rinnovabile proveniente dall'agricoltura italiana è destinata a triplicare nei prossimi dieci anni con circa centomila posti di lavoro disponibili. E' quanto emerge da una analisi presentata dalla Coldiretti al Forum internazionale "l'energia di domani", organizzato insieme ad Ambrosetti a Venezia. Lo sviluppo delle energie rinnovabili prodotte nelle campagne italiane raggiungerà nel 2020 - sottolinea la Coldiretti - una percentuale dell'8 per cento del totale, rispetto all'attuale 2 per cento, per un totale di 15,5 milioni di tonnellate petrolio equivalente (MTEP) prodotte. Con oltre il 70 per cento il maggiore contributo viene dalle biomasse combustibili provenienti dal legno, dalle colture erbacee, dai residui agroalimentari e dai reflui degIi allevamenti, ma non trascurabile è il contributo dei carburanti con il 20 per cento, mentre il restante 10 per cento è ottenuto - precisa la Coldiretti - attraverso solare, eolico ed idroelettrico.

Si tratta di una tendenza coerente con gli orientamenti espressi nella dichiarazione formulata dai Ministri agricoli degli otto Paesi piu' sviluppati al recente G8 agricolo di Treviso dove si sostiene che "la produzione di energia rinnovabile da biomasse, deve essere aumentata in modo sostenibile attraverso una combinazione bilanciata delle necessità delle politiche energetiche con la produzione agricola, in modo da fornire una risposta ai nostri fabbisogni energetici, economici, ambientali, agricoli e, allo stesso tempo, non compromettere la sicurezza alimentare. Le politiche dovrebbero incoraggiare una produzione e un consumo di bio-carburante sostenibile per l'ambiente, promuovendone i benefici e riducendo qualunque potenziale rischio, con una forte attenzione per lo sviluppo e la commercializzazione di bio-carburanti di seconda generazione, secondo gli orientamenti della Dichiarazione della Conferenza di Alto Livello sulla Sicurezza Alimentare Mondiale di giugno 2008".

In Italia una spinta alla produzione di energia da biomasse è attesa - continua la Coldiretti - dal decreto attuativo del cosiddetto collegato alla finanziaria 2007 (legge 29 novembre 2007, n. 222) che il Ministero delle Politiche Agricole sta per emanare completando così il quadro dei finanziamenti espressamente rivolti alla produzione di energia elettrica mediante l'impiego delle biomasse agricole e forestali. Il provvedimento era da tempo atteso dalle imprese agricole perchè riguarda, in particolare, l'introduzione di un meccanismo incentivante (una tariffa omnicomprensiva di 0,30 euro/kW in "conto energia" e un moltiplicatore del valore dei certificati verdi di 1,8) destinato all'energia elettrica generata attraverso l'impiego di biomasse di origine agricola ottenute nell'ambito di intese di filiera o di filiera corta (70 km di distanza tra luogo di produzione della biomassa e luogo di trasformazione energetica). La definizione territoriale della filiera corta (70 km) rappresenta un criterio strettamente legato alla sostenibilità ambientale perché - sostiene la Coldiretti - garantisce la riduzione delle emissioni da trasporto che caratterizzano i grandi impianti alimentati con biomassa importata e ottenuta in modo non sostenibile (deforestazione, sostituzione di coltivazioni a fini alimentari, ecc.). L'emanazione del decreto, inoltre, mette fine - conclude la Coldiretti - all'annosa questione della cumulabilità degli incentivi, andando a completare le prescrizioni normative che rendono l'accesso alla tariffa incentivante, da parte di impianti di proprietà di aziende agricole, agroalimentari, di allevamento e forestali, alimentati a biomasse e biogas, cumulabile con altri incentivi pubblici di natura nazionale, regionale e locale o comunitaria in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata non eccedenti il 40 per cento del costo di investimento.

fonte: ambiente.it

Bonifiche, niente fondi ai siti toscani

LA DENUNCIA. «Siamo fortemente preoccupati per le notizie che giungono da Roma. Sembra infatti che ben tre miliardi di euro, risorse pubbliche che il Governo Prodi aveva destinato alla bonifica e alla reindustrializzazione dei Sin (siti da bonificare di interesse nazionale), siano scomparsi». Lo ha affermato Anna Rita Bramerini, assessore all'Ambiente della Regione Toscana, preoccupata del rischio di aggravare ulteriormente la situazione di aree produttive già pesantemente colpite dalla crisi economica.

MANNAIA DEL GOVERNO. «Grazie a parte di quei fondi - spiega Bramerini - la Toscana avrebbe potuto avviare il recupero ambientale, ma anche produttivo dei siti di Livorno, Piombino, Massa Carrara e Scarlino. Sapevamo della decisione del Governo di destinare parte di quelle risorse al Fondo strategico per il Paese, di cui responsabile è il presidente del Consiglio – ha continuato l’assessore - ma quello che sconcerta è scoprire che il “taglio” è stato un “colpo di mannaia"».

SITI TOSCANI ESCLUSI. Secondo quanto rivelato dall' assessore, inizialmente erano stati previsti 50 milioni di taglio sui 450 milioni destinati alle Regioni del Centro-nord, adesso invece sembra che siano solo 50 milioni le spese autorizzate e che riguardino esclusivamente interventi immediatamente cantierabili in tre dei 26 siti definiti prioritari anche dallo stesso Governo Berlusconi. Nessuno di questi tre siti si trova in Toscana.

fonte: lanuovaecologia.it

Melilli, in tremila votano al referendum Quasi tutti per il no al rigassificatore

Dopo Priolo, dove i voti contrari sono stati circa seimila, a Melilli quasi tremila persone hanno votato per il referendum consultivo sulla realizzazione del rigassificatore progettato dalla Ionio Gas, società costituita da Erg e Shell. La costruzione è prevista nel Comune in cui è sindaco Pippo Sorbello, assessore regionale all'Ambiente. I seggi sono rimasti aperti per tutta la giornata di domenica. Sino al mezzogiorno la percentuale dei votanti è stata scarsa, solo il 4,75 per cento. La situazione non è cambiata di molto a fine giornata, quando su 11.582 aventi diritto al voto, si sono recati alle urne solo 2.957 cittadini, di cui 2.846 hanno votato “no”.

Il quesito chiedeva ai cittadini di Melilli di manifestare assenso o dissenso sulla proposta di costruzione del rigassificatore. Due anni fa in un altro Comune della zona industriale siracusana, Priolo, era stato indetto un referendum consultivo sulla costruzione del rigassificatore proposto da Ionio Gas. In quella occasione i cittadini ebbero a disposizione due giornate per esprimere la loro opinione. A Priolo votò il 57% degli aventi diritto al voto, e il no al rigassificatore vinse con circa il 98 per cento dei consensi. A Melilli il 96,24% dei votanti si è espresso contro la costruzione dell’impianto della Ionio Gas, mentre la percentuale dei favorevoli è del 3,75%, ma poiché non si è raggiunto il 50% più uno.

fonte: lanuovaecologia.it

California, prima legge contro le emissioni

IL LIMITE. È stata approvata in California la prima legge degli Stati Uniti che pone un limite alle emissioni di CO2 nello Stato, che dovranno essere ridotte "almeno del 10%" entro il 2020. Nel testo si precisa che anche le compagnie petrolifere devono contribuire a raggiungere l'obiettivo e impegnarsi a cercare di offrire combustibili "puliti" alternativi.

SCHWARZENEGGER. La nuova legge, che secondo il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, è la prima al mondo di questa natura, impone standard tali alle emissioni che dovrebbe accelerare la nascita e lo sviluppo di un vero e proprio mercato californiano dell'energia alternativa. «Ritengo che con questo provvedimento abbiamo definito la cornice di quello che sarà il nuovo modo di concepire il combustibile per le automobili - ha detto Schwarzenegger - e speriamo che presto la benzina o il gasolio non siano più l'unico combustibile usato su larga scala per le auto».
L’OBIETTIVO. La legge prevede che l'attuale livello di CO2 sia abbassato "almeno del 10%" entro il 2020. Per raggiungere questo obiettivo la legge coinvolge tutti i soggetti impegnati nell'attuale ciclo produttivo dei combustibili, dai pozzi petroliferi off-shore fino alle raffinerie e alla loro rete di distribuzione, sottolineando che il raggiungimento dell'obiettivo di un abbassamento del 10% delle emissioni attiene anche alla loro responsabilità.

fonte: lanuovaecologia.it

Muore il mare d'Aral

È naufragato in una vaga dichiarazione d'intenti finale il vertice dei presidenti dei cinque Paesi dell'Asia centrale riunitisi ad Almaty, in Kazakhstan, per discutere di come salvare il Mare di Aral, il grande lago salato teatro di uno dei più gravi disastri ambientali causati dall'uomo, in questo caso dalla pianificazione sovietica. I leader di Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Tagikistan si sono impegnati a trovare il modo di unificare le loro posizioni in futuro. Ma per il presente sono emersi solo i conflitti tra i primi tre Stati, in gran parte desertici ma ricchi di idrocarburi e grandi consumatori d'acqua, e gli ultimi due, che controllano l'80% delle risorse d'acqua nella regione non riuscendo però a sviluppare il loro potenziale idroelettrico per l'opposizione dei vicini.

La costruzione di centrali, infatti, aggraverebbe la penuria d'acqua e metterebbe a rischio la lucrativa cultura uzbeka del cotone. Per non parlare di quella ancor più redditizia della trivellazione: i terreni lasciati scoperti dall'acqua si sono rivelati ricchissimi di giacimenti di gas naturale ed esiste già un accordo per lo sfruttamento del sottosuolo in territorio uzbeko che mal si concilia con un eventuale ritorno dell'acqua al livello originario. Il vertice sul Mare di Aral, al quale non è stata invitata Mosca nonostante il suo tentativo di mantenere la sua influenza nell'Asia centrale, è diventato così una cartina di tornasole della potenziale instabilità nella regione legata all'uso dell'acqua. Il presidente kazako Nursultan Nazarbaiev ha promesso che, nonostante la crisi finanziaria, continueranno gli sforzi del suo Paese per salvare lo specchio d'acqua, condiviso con l'Uzbekistan anche se ormai dal 1987 si tratta di due laghi distinti, isolati da una diga finita nel 2005. "Realizzeremo gli otto elementi del programma per oltre 191 milioni di dollari", ha garantito.
Ma Nazarbaiev ha anche ammesso che "nonostante l'impegno, i tassi di crescita dei fattori che mettono a rischio l'ambiente superano la dimensione degli sforzi fatti". Il Mare di Aral, un tempo il quarto lago più grande del mondo, ha perso il 90% della sua superficie dalla metà del secolo scorso a causa principalmente del piano di coltura intensiva voluta dal regime sovietico nell'immediato dopoguerra: l'acqua dei due fiumi che alimentavano il lago fu prelevata tramite canali per irrigare i neonati vasti campi di cotone delle zone circostanti. Il responsabile del piano, Grigori Voropaev, ammise tranquillamente che il suo scopo era "far morire serenamente il lago d'Aral", definito "un errore della natura". La linea della costa è arrestrata in alcuni punti anche di 150 km lasciando un deserto di sabbia salata, e tossica a causa dei pesticidi, che ha reso inabitabile gran parte dell'area, aumentando le malattie respiratorie e renali. Le polveri, trasportate dal vento, sono arrivate fino al Nord Europa e sull'Himalaya.

fonte: lanuovaecologia.it

Gore: «Ghiacciai in pericolo»

L'APPELLO. Dalla prima conferenza sullo scioglimento dei ghiacci dall'Himalaya ai poli, ieri a Tromsoe, nel nord della Norvegia, è giunto un nuovo allarme per il riscaldamento del pianeta. Il premio Nobel per la pace, l'ex vice-presidente Usa Al Gore, davanti a politici ed esperti degli otto paesi dell'area artica, Stati Uniti, Russia, Canada, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda ha lanciato un appello per una rapida azione dell'Onu e di tutti i paesi del mondo contro lo scioglimento dei ghiacci, prima che sia troppo tardi. "Questa conferenza è un campanello di allarme per il mondo", ha aggiunto Gore nella dichiarazione finale del vertice. Il ministro degli esteri norvegese, Jonas Gahr Stoere, ha affermato che i ghiacci stanno scomparendo da tutte le terre e le acque del globo, perché la temperatura aumenta: il risultato è un innalzamento del livello dei mari.

VERSO COPENAGHEN. "È un fenomeno globale che deriva dal riscaldamento del mondo - ha dichiarato Stoere - Tutti i ghiacciai ne sono coinvolti, dall'Himalaya alle Alpi, dalle Ande al Kilimangiaro, dalla Groenlandia ai poli". Stoere e Gore hanno pianificato una task force di esperti del disgelo che lavorino per un trattato Onu sull'argomento, che potrebbe essere approvato già quest'anno."Le prove scientifiche per incoraggiare l'azione a Copenaghen (dove a dicembre si terrà vertice dell'Onu sul clima) continuano ad accumularsi di giorno in giorno", ha aggiunto l'ex vice presidente Usa. "Il ghiaccio è importante per l'ecosistema della Terra per numerose ragioni - ha detto in una conferenza stampa Gore - Una di queste è legata alla capacità di riflessione".

LE PREVIISONI. La banchisa riflette infatti il 90 per cento delle radiazioni solari nell'atmosfera, mentre l'acqua proveniente dal disgelo assorbe il calore, riscaldando ulteriormente il clima. Le previsioni sull'innalzamento del livello del mare parlano di una crescita dai 18 a 59 centimetri in questo secolo. Ma qualche scienziato prevede un innalzamento più vicino a un metro. Al Gore ha specificato che un aumento di un metro nel livello del mare provocherà 100 milioni di rifugiati climatici in tutto il mondo. L'estensione della banchisa artica ha raggiunto il minimo di 4,13 milioni di chilometri quadrati nel settembre del 2007. Nell'Antartide un fronte di 700 chilometri quadrati della calotta di ghiaccio Wilkins si è frantumato recentemente dando vita a numerosi iceberg. Lo scioglimento dei ghiacciai nell'Himalaya, chiamato dagli esperti "il terzo polo", potrà portare in un primo tempo a gravi inondazioni, seguite però da una siccità che danneggerà il 40% della popolazione mondiale che vive lungo i fiumi himalayani.

fonte: lanuovaecologia.it

Auto elettriche, arriva la presa universale

Sono oltre 20 le compagnie automobilistiche e le grandi utility elettriche che hanno aderito all'accordo su una nuova presa universale studiata per ricaricare la futura auto elettrica. Secondo il quotidiano tedesco Handelsblatt si tratterebbe di «un passo importante sul cammino verso il lancio sul mercato delle nuove vetture alimentate con questo tipo di energia».

«La presa standard da 400 volt avrà cinque poli e permetterà di fare il “pieno” in pochi minuti» ha spiegato un portavoce del colosso energetico tedesco Rwe, che ha lanciato l’iniziativa insieme alle compagnie automobilistiche e alle grandi utility. Le 20 società lavorano già da mesi al progetto per uniformare i sistemi di alimentazione delle auto ecologiche e di approvvigionamento presso le stazioni di servizio mentre la Rwe sta costruendo circa 500 punti di rifornimento a Berlino. Resta ancora da chiarire quale sarà il design della nuova spina.

fonte: lanuovaecologia.it

Salva la rana

Il 32% della popolazione è estinta o a rischio di estinzione, mentre il 42% è in declino: sono gli anfibi, la classe di vertebrati a maggior rischio di estinzione (secondo un'indagine dell'Unione internazionale per la conservazione della natura). Oggi è la giornata mondiale, il Save the frogs day, un evento su scala mondiale per sensibilizzare sullo stato di questi animali. In particolare, il 30% delle specie conosciute ricade nelle tre categorie che designano il maggior grado di minaccia "minacciato criticamente", "minacciato" o "vulnerabile".

Negli ultimi mesi in Italia è stato attivato un progetto del Wwf in collaborazione con l'università Roma Tre per lo studio e il monitoraggio delle popolazioni di anfibi nelle Oasi dell' associazione, rivelando la presenza di 22 specie nelle 40 Oasi analizzate. In Italia, restringendo l'analisi alle specie autoctone per cui si dispone di sufficienti dati (28 specie sulle 39 totali), il 43% delle specie ricade in una delle tre categorie di minaccia e precisamente: l'11% nella categoria "minacciato criticamente", l'11% nella categoria "minacciato" ed il 21 % nella categoria "vulnerabile".

Tra le molte cause di estinzione, la scarsità e l' inquinamento delle acque, il degrado e la scomparsa degli habitat (come il prosciugamento delle pozze d'acqua per la riproduzione) a seguito dell' urbanizzazione e dell'agricoltura intensiva, l'introduzione di specie aliene, il collezionismo e il riscaldamento globale.

fonte: lanuovaecologia.it

Presidente Commissione Ambiente: no a Kyoto e al pacchetto "20-20-20"

“L’Italia ha fatto male a sottoscrivere il protocollo di Kyoto, la cui impalcatura è da rivedere”. E non solo. Male fece anche ad aver preso impegni sul pacchetto energia e clima della Ue.
Chi si esprime così, a sorpresa, è il Presidente della commissione Ambiente del Senato, Antonio D’Ali’.
D’Ali’ tenta anche di spiegare questa sua posizione con una motivazione, per la verità alquanto singolare. “Il protocollo di Kyoto è un fallimento perché non è stato firmato da tutti – argomenta convinto, aggiungendo – E l’Italia non ha valutato la capacità e la struttura dell’economia nazionale per raggiungere quei risultati” che, secondo il personale parere del senatore, “erano già di per sé degli obiettivi irraggiungibili”. Al contrario plaude alla clausola di revisione sul pacchetto Ue (prevista per marzo 2010), secondo lui “buona” perché “permette di effettuare delle rimodulazioni”: detta in parole povere, di tornare indietro nella lotta ai cambiamenti climatici.
In netta contrapposizione con la scelta di politica ambientale della stessa Unione il presidente della commissione Ambiente si è dichiarato concorde con la mozione sui cambiamenti climatici dei senatori del PdL Dell’Utri, Nania e Poli Bortone: “Semplicemente si vuole dare ascolto a chi ha una posizione diversa e non solo a quella dominante dell’Ipcc” che, sempre a suo dire, sembra “condizionata in modo pesante da fondamentalismi ambientali. Una cosa – cerca ancora di spiegare D’Ali’ – è dire che l’uomo è la causa del riscaldamento globale, altro è verificare se c‘è un mix di fattori”. E sui negoziati: “Più che accordi globali, penso a accordi bilaterali, non ne escluderei uno tra Usa e Cina”.

fonte: rinnovabili.it

martedì 28 aprile 2009

L’Anev sulla modifica al sistema dei certificati verdi

Trasferire a partire dal 2011 la quota obbligatoria di produzione da rinnovabili dai produttori e importatori di elettricità non rinnovabile “ai soggetti che concludono con la società Terna Spa uno o più contratti di dispacciamento di energia elettrica in prelievo”. Questo nella riforma dei CV introdotta nel Ddl manovra su emendamento di Cesare Cursi (Pdl) e che ha suscitato qualche perplessità per il rischio di una difficoltà applicativa della proposta. “Il rischio – afferma l’Anev in una nota stampa – di una nuova modifica normativa fatta con troppa fretta e senza un’adeguata analisi degli impatti, è da evitare. Non vi è una contrarietà a modificare il sistema di incentivazione a priori, ma ogni modifica deve rispettare principi di coerenza con lo strumento incentivante ed essere funzionale al raggiungimento degli obiettivi assunti”.
“Nel caso specifico – continua l’associazione – il trasferimento dell’obbligo sui distributori può essere effettuato con differenti esiti a seconda di come e quando si trasporrà tale obbligo. Infatti se il passaggio terrà conto dell’offerta di CV in linea con gli impegni comunitari (25% di Fonti Rinnovabili sul Consumo Interno Lordo al 2010) questo potrebbe aumentare la stabilità del sistema, viceversa una riduzione della percentuale sulla base dell’aumento dell’imponibile che mantenesse il medesimo risultato di domanda non avrebbe risultati utili”.
Ad alterare l’equilibrio raggiunto dal sistema sarebbe anche la “difficoltà operativa di controllo della copertura” che “rischierebbe di rendere meno efficace il sistema di controllo e le azioni di dissuasione”.
“Un altro aspetto – prosegue l’Anev – riguarda l’energia elettrica sottoposta ad esenzione dall’obbligo che dovrebbe essere chiaramente indicata per poter fare i calcoli dovuti”.
La conclusione è che “senza i dati necessari a valutare gli impatti di questa norma non è possibile fare nessun tipo di osservazione nel merito, ma ci dobbiamo limitare alla considerazione, più volte espressa, che tale trasferimento se anche non incide sulle remunerazioni delle produzioni rinnovabili, certamente incide e snatura il sistema eliminando la spinta alla ricerca e allo stimolo di nuova produzione rinnovabile che i produttori con l’attuale obbligo implicitamente sentono, mentre il nuovo possibile scenario trasferisce in maniera “trasparente” i costi sull’utente finale, comportando pertanto una perdita di spinta alla concorrenzialità del’offerta”.

fonte: rinnovabili.it

Idroelettrico: tecnologia italiana per la centrale cilena

Realizzata a tempo di record ed inaugurata quest’oggi la Centrale Idroelettrica ‘Lircay’ nella provincia di Talca in Cile. Ad inaugurare questo particolare impianto, caratterizzato dal fatto che rappresenta la prima centrale mai realizzata in terra cilena ad assicurare l’utilizzo multiplo dell’acqua per uso agricolo, irriguo e idroelettrico, sarà la Presidentessa della Repubblica del Cile, Michelle Bachelet, in compagnia di Paolo Casardi, Ambasciatore d’Italia in Cile. Ma l’impronta italiana non si ferma alla presenza dell’Ambasciatore Casardi; si evidenzia infatti, dal punto di vista di gestione e realizzazione dell’infrastruttura, l’operazione di project financing concordata fra il gruppo padovano leader nel settore delle energie rinnovabili Sorgent.e e la società veicolo Hidromaule SA, costata ben 30 milioni di dollari, che ha agevolato la stessa, e la gestione dei lavori che hanno visto in prima linea S.T.E. Energy in quanto uno dei maggiori costruttori italiani di impianti a livello internazionale. Inoltre, la centrale cilena richiama anche il know-how italiano in materia derivante dalle realizzazioni italiane, soprattutto sugli impianti idroelettrici lombardi lungo i corsi dell’Adda, dell’Oglio, del Serio e dei diffusissimi canali presenti in Italia. Quanto all’aspetto puramente energetico questa centrale, caratterizzata da una potenza di circa 20 MW, garantisce la produzione di oltre 130 milioni di kWh di energia elettrica, ovvero l’equivalente del consumo di una cittadina da 100.000 abitanti che in termini di combustibile fossile consumato, quindi di petrolio, corrisponde a 53.000 barili di petrolio in meno. Tutto ciò ovviamente si traduce anche in termini di riduzione delle emissioni di CO2 immesse in atmosfera per un totale di 52.000 tonnellate.
Grazie quindi ai suoi innovativi aspetti sviluppati in virtù dell’efficienza energetica e dell’ecosostenibilità, la centrale di Lircay è stata riconosciuta, a livello internazionale, dal Banco Mondiale come un progetto pilota fra i più interessanti dal punto di vista dell’impatto sociale ed ecologico, a tal punto da riconoscere al progetto un finanziamento tramite la International Finance Corporation, la sua branch attiva negli investimenti privati. La centrale infatti, localizzata nella valle del Rio Maule, utilizze le acque irrigue gestite dall’Associazione dei Canalisti del Maule che coinvolge oltre 3.000 utilizzatori della risorsa idrica e ha collaborato alla realizzazione della struttura, partecipando poi direttamente ai benefici della Centrale. A sottolineare la peculiarità del progetto, la sua partecipazione al Protocollo di Kyoto con i Clean Development Mechanism che ne derivano dalla produzione di energia derivante da fonte rinnovabile.

fonte: rinnovabili.it

Italia come Inghilterra, un gruppo di imprese per ridurre la CO2

Fortemente voluta dal Prince Carlo d’Inghilterra la Corporate Leaders Group on Climate Change riunisce in sé tra le massime società britanniche ed internazionali, tra cui anche l’italiana Enel, impegnate a sviluppare nuove politiche a lungo termine per affrontare il surriscaldamento globale. Le azioni intraprese gravitano su misure di riduzione delle emissioni di anidride carbonica e sullo sviluppo di tecnologie eco-friendly capaci di produrre energia senza ricadute sull’ambiente e sono dettate da un’urgenza condivisa dalle società partecipanti. Un’urgenza avvertita anche dal presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che al termine dell’incontro con l’erede al trono inglese e una delegazione di imprenditori italiani ha annunciato che su questa stessa linea nascerà anche in Italia un gruppo di lavoro di indirizzato alla lotta ai cambiamenti climatici; ad aderire Barilla, Italcementi, Pirelli, Telecom e Bulgari, oltre ovviamente ad Enel, con la prospettiva di ampliare rapidamente il numero. L’incontro “breve ma molto interessante”, ha spiegato la Marcegaglia, è stata l’occasione per riconoscere “con il principe Carlo che, da parte delle aziende di tutto il mondo, c’è un impegno molto forte per la riduzione di emissioni di CO2, un impegno preso anche al G8 Business summit”.
Il gruppo di imprese italiane, secondo quanto riportato dal numero uno degli industriali, lavorerà proprio su questo tema, unendosi al Corporate Leaders Group, con l’obiettivo di riuscir a diffondere “la consapevolezza all’interno elle imprese che si può fare molto per l’efficienza energetica, dal sistema di riciclo ai motori elettrici”. Si tratta di una questione cara a Confindustria già attiva sul fronte e ora ancor più stimolata a proseguire su questa strada; in tal senso l’autunno vedrà un altro incontro tra gli industriali per prepararsi a Copenaghen e “lavorare per la diffusione della cultura dell’efficienza energetica anche nelle piccole e medie imprese”.

Per l’a.d. di Enel, Fulvio Conti, gli sforzi compiuti dal settore devono però essere sostenuti da governo ed Istituzioni, perché l’industria da sola non può vincere la sfida contro il cambiamento climatico. “Il raggiungimento dell’obiettivo zero emissioni di Co2 entro il 2050 – ha affermato Conti -, può essere raggiunto dall’Europa solo con meccanismi di mercato che siano in grado di conferire valore economico alle tecnologie di riduzione delle emissioni. Esse però richiedono l’adozione da parte dei Governi di politiche che accompagnino le misure necessarie a colmare il divario tecnologico che il mercato da solo non riesce a colmare”.

fonte: rinnovabili.it

In Italia il primo robot-spazzino

Nel metro e mezzo di altezza e 77 centimetri di larghezza si nasconde un mix di tecnologie: un sistema di navigazione satellitare, un altro basato su ultrasuoni e ancora sistemi laser e una miriade di sensori e meccanismi elettronici e meccanici. Il tutto costruito e assemblato con uno scopo: raccogliere la spazzatura. Il primo robot spazzino sarà sperimentato in Italia da sabato 9 maggio a Pontedera, in provincia di Pisa.

L’automa si chiama DustCart ed è stato realizzato dall’Atr (Advanced Telecommunications Research Institute International), uno dei più prestigiosi laboratori di ricerca giapponesi e dalla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Il robot spazzino per ora ha un’autonomia di 24 chilometri e una velocità di 16 ed è utile per la raccolta di spazzatura «porta a porta» soprattutto nei piccoli centri storici e nei centri commerciali. Il funzionamento è semplicissimo. L’utente forma un numero al cellulare, inserisce via e numero civico, e il robottino raggiunge l’appuntamento. A questo punto si inserisce il sacco della spazzatura nel ventre dell’automa che può ospitare sino a 30 chili di materiale. Una delle peculiarità della macchina è la possibilità di fare raccolta differenziata: sfiorando lo schermo sensibile al tocco, infatti, si può selezionare la tipologia di rifiuti (vetro, plastica, carta e altro) e dare la possibilità al robot di raggiungere appositi contenitori.

La sperimentazione di DustCart si svolgerà nelle zone pedonali dei Comuni di Pontedera, Peccioli e Massa (Massa Carrara) e all’estero a Örebro (Svezia) e a Bilbao (Spagna). I primi risultati di laboratori hanno dato un esito positivo. Tecnicamente il robot funziona bene e individua con accuratezza ostacoli e indirizzi. Questo avviene grazie a un innovativo sistema di ultrasuoni e di segnalatori che debbono essere istallati nelle zone operative. Anche il Gps e gli altri sensori compiono il loro dovere egregiamente.

Non mancano però i problemi. Perché passare da un ambiente tutto sommato «protetto» (laboratori, zone di sperimentazione) a quello di una città può trasformarsi per l’automa in una giungla. Per una corretta raccolta di rifiuti è dunque indispensabile avere una rete di robot che, se pur efficienti, hanno bisogno di manutenzione e soprattutto di controllo. E questo vale soprattutto nei Paesi occidentali dove gli episodi di vandalismo sono purtroppo all’ordine del giorno. Anche i costi di produzione avranno un peso. L’impressione è che i netturbini in carne e ossa potranno dormire sonni tranquilli almeno per qualche altro anno. Wall-e, l’automa spazzino della Disney e della Pixar premiato con l’Oscar, resterà ancora un'icona dell’immaginario cinematografico

fonte: corriere.it

Londra: un esercito di 6000 bici per i pendolari

Fan dichiarato della due ruote più ecologica che ci sia non sorprende sapere che il Sindaco di Londra, Boris Johnson, abbia deciso di puntare sulla bicicletta per dare un’ulteriore sferzata alla qualità di vita della capitale ed alla mobilità sostenibile. Dopo la presentazione del piano per immettere sulle strade cittadine almeno 100mila veicoli elettrici supportati da un’infrastruttura di 25mila punti di ricarica, Transport for London (TfL) ha, infatti, annunciato ieri l’avvio del processo di richiesta per 400 stazioni di bike-sharing nel centro di Londra, destinate al noleggio di 6000 bici. Le prime quattro domande sono già state presentate al Consiglio di Camden, con l’obiettivo di avere il sistema operativo a partire da maggio 2011. Il piano è stato modellato sul Velib, il popolare sistema di noleggio biciclette di Parigi, e dovrebbe aiutare a ridurre la congestione sui “punti caldi” della rete metropolitana e di autobus. Il progetto fa parte di un programma di investimenti di 111 milioni di sterline stanziati per rendere più agevole la mobilità sostenibile nella capitale, incoraggiando più persone a utilizzare le biciclette. Un portavoce della TfL ha fatto sapere che le modalità di noleggio e i prezzi saranno comunicati entro breve.

fonte: rinnovabili.it

Bilancio Conai: cresce il riciclo degli imballaggi

Buone notizie sul fronte irifiuti emergono dal bilancio 2008 del Conai, il Consorzio Nazionale Imballaggi. L’Italia infatti non solo ha raggiunto gli obiettivi previsti dalla legge in merito al recupero e al riciclo degli imballaggi immessi sul mercato, ma li ha anche distaccati di ben 8 punti percentuali. Acciaio, alluminio, carta, legno, plastica e vetro, rispetto al recupero complessivo arrivano infatti al 68,4% dell’immesso al consumo, evidenziando un trend di crescita quanto alla mole di materiali riciclati anche a fronte di un incremento dei consumi. Nello specifico, la filiera della carta registra il 75,3% del totale in cementando di oltre il 4,8% la porzione riciclata, quanto all’acciaio la percentuale scende, rispetto alla carta, al 68,9% e per quanto riguarda il legno si riconferma il 52,5% contro il 35% richiesto a norma di legge. Nel totale dunque sono state riciclate nel solo 2008 7.224.000 tonnellate di rifiuti di imballaggio rispetto ad un totale di 12.189.000 immesse sul mercato. Ciò che ha agevolato questo successo è stato anche il fatto che il sistema consortile ha permesso dal 1998 al 2008 di rovesciare il rapporto tra le quantità avviate a recupero e quelle smaltite in discarica, avendo registrato rispettivamente una crescita importante per le prime, dal 30% al 69%, e viceversa una decrescita altrettanto consistente, dal 70% al 31%, per le seconde. Ciò che tuttavia delude e, diciamo, evidenzia un piccolo neo all’interno di un bilancio a tal punto positivo, è lo scarso successo che stanno avendo sul mercato i materiali stessi ottenuti dal riciclo.

fonte: rinnovabili.it

Docce solari per i terremotati

Il progetto “Solarizzazione dei campi di accoglienza post-terremoto” è un’iniziativa promossa dal CIRPS (Centro Interuniversitario di Ricerca Per lo Sviluppo Sostenibile, Università di Roma “La Sapienza”), in collaborazione con l’associazione di volontariato ISF-Roma (Ingegneria Senza Frontiere – Roma).
Obiettivo del progetto è quello di garantire la fornitura di acqua calda sanitaria attraverso l’installazione partecipata di collettori solari termici nei campi d’accoglienza post-terremoto in Abruzzo. Questa soluzione tecnica, oltre ad aiutare il riscaldamento dell’ acqua in modo economico, tempestivo e sostenibile, consentirebbe la realizzazione di un processo che vede gli stessi beneficiari impegnati in prima persona nel miglioramento delle condizioni di vivibilità del campo d’accoglienza. Il buon esito di questo progetto, oltre a gettare le basi per poter replicare nel campo stesso e nelle altre realtà abruzzesi iniziative dello stesso tipo, costituirebbe sicuramente un efficace stimolo al raggiungimento
dell’autonomia degli sfollati nel coadiuvare attivamente gli aiuti in questa delicata fase di post-emergenza. Gli impianti realizzati rimarranno successivamente in funzione per le strutture sportive che li ospitano, anche come inizio di un nuovo sviluppo del territorio all’insegna della sostenibilità.
Dopo i primi aiuti, presenza e contatti avviati con realtà solidali già nei primi giorni di soccorsi e dopo i primi sopralluoghi tecnici svolti presso le zone di accoglienza, è stata individuata l’area del possibile intervento presso i centri d’accoglienza di Coppito e di Fossa (AQ).

Vista la bassa temperatura di entrata e la conseguente poca disponibilità di acqua calda sanitaria, l’attuale situazione presenta evidenti e immaginabili disagi per gli occupanti.Viste le condizioni di impellente necessità in cui vertono i centri di accoglienza, ed in particolare quello di Fossa, è quanto mai opportuna un’azione tempestiva.
Allo stato attuale il centro di Fossa, coordinato da “Epicentro Solidale” ospita più di 300 persone, e le 8 docce installate all’interno di container sono alimentate in parte da un gruppo elettrogeno in cogenerazione. I punti doccia presenti nel campo di accoglienza potrebbero essere facilmente aumentati e riscaldati con l’utilizzo di impianti solari termici, viste anche le giornate soleggiate ormai imminenti.

Si prevede infatti di completare una prima installazione degli impianti presso le aree colpite dal sisma, entro due settimane se il reperimento del materiale necessario prosegue come ad oggi concordato. Successivamente e in occasione della prima installazione, è prevista una fase di formazione e preparazione anche tecnica dei beneficiari, in modo che possano in futuro provvedere alla manutenzione e gestione dell’esercizio degli impianti.
Lo stesso gruppo proponente è di fatto già impegnato nel territorio con alcune attività specifiche, avendo fornito assistenza tecnica all’istallazione di un impianto solare di 10 mq presso il Campo di Coppito (AQ), attuata con Regione Lazio e il gruppo Iron e garantendo il monitoraggio dello stesso nei primi giorni di funzionamento. Il monitoraggio dell’impianto in esercizio si protrarrà nel tempo, e sarà ancora più interessante visto soleggiamento previsto nel prossimo mese.
Per il reperimento del materiale necessario già in fase di ideazione del progetto abbiamo incontrato la solidarietà attiva di alcune industrie del settore (sono stati presi i primi accordi con l’Associazione Italiana Solare Termico, Assolterm), e si collabora con le Autorità Locali, Protezione Civile, Regione Lazio (Assessorato all’Ambiente), per continuare il lavoro in altri campi e seguire la manutenzione e l’avvio delle prime istallazioni.

A chi volesse sostenere concretamente il progetto di solarizzazione dei campi di accoglienza post-terremoto chiediamo di partecipare alla raccolta di kit completi o materiale utile per la realizzazione di impianti solari termici (assorbitori, coibente, vetro, serbatoi) o di contribuire alle inevitabili spese realizzative (costi di trasporto, raccorderia idraulica, etc.), inviando un contributo intestato a “Tecnologie Solidali Onlus” al c/c postale 85271799 (ovvero IBAN: IT 51 E 07601 03200 85271799). Lo stato di avanzamento della raccolta materiali e fondi, delle attività su campo e ovviamente delle spese sostenute sarà documentato in modo trasparente sul sito CIRPS www.cirps.it , che verrà aggiornato in questa sezione con cadenza anche quotidiana.

Andrea Micangeli – CIRPS
Giuseppe Orsini – Ingegneria Senza Frontiere, Roma

  • Per chi può portare in detrazione un contributo economico si consiglia inviare un messaggio con i propri dati (nome, codice fiscale, indirizzo) al Prof. Marco Balsi e ricevere una ricevuta formale:

    presidente@tecnologiesolidali.org

fonte: rinnovabili.it

Sempre meno farfalle, è allarme in Uk

Gli inglesi ne fanno una questione di identità: le farfalle nei loro campi fioriti ci sono sempre state e non vedere più alcune delle loro specie più amate svolazzare copiose tra un fiore e l'altro fa male come una ferita che sanguina. L'estate del 2009 sarà un banco di prova per capire se sarà confermato il trend di rapido declino, registrato dagli studiosi soprattutto negli ultimi due anni, o se vi sarà una sperata quanto improbabile inversione di tendenza. Il 2008, secondo quanto si legge in nell'ultimo Uk Butterfly Monitoring Scheme è stato in assoluto l'anno l'anno più negativo della storia degli ultimi trent'anni. E almeno 12 specie hanno registrato drastici cali di popolazione al punto da arrivare vicine al rischio di estinzione.

NON SOLO ESTETICA - Non è però solo una questione estetica, una testimonianza di affetto per una componente fondamentale del panorama rurale britannico. «Le farfalle sono un importante indicatore, capace di metterci in allerta sui disequilibri dell'ambiente - avverte dal proprio sito Internet la Butterfly Conservation, un'associazione fondata nel 1968 da un gruppo di naturalisti proprio come risposta ai primi allarmi sulla riduzione del numero di insetti -. Se il numero di farfalle è in calo, inevitabilmente anche la fauna e l'ecosistema risultano in declino». Dal 1998 il presidente della Butterfly Conservation è sir David Attenborough, per anni volto televisivo della Bbc, noto anche in Italia per una serie di documentari sulla natura rilanciati da diverse trasmissioni a carattere scientifico e naturalistico, come ad esempio «Quark» di Piero Angela.

I MEDIA IN CAMPO - Per capire quanto la cosa sia fondamentale per i britannici, basta pensare al fatto che lunedì il Guardian ha dedicato ben quattro pagine all'argomento, oltre alla copertina nel proprio inserto G2 che, parafrasanto la canzone di Pete Seeger poi diventata uno dei simboli della protesta pacifista degli anni Sessanta si chiede: «Where have all our butterflies gone?», dove sono finite le nostre farfalle? L'Indipendent, altro autorevole quotidiano, ha invece deciso di lanciare la Great British Butterfly Hunt, la grande caccia alle farfalle britanniche. Si tratta ovviamente di una caccia solo documentaria, con i lettori sguinzagliati in ogni contea del regno unito con l'obiettivo di individuare e classificare tutte le 58 specie di farfalle - 56 indigene e due importate nel corso dei secoli - che vivono nell'isola e che sempre più sono a rischio di scomparsa. L'obiettivo è puntare i riflettori su un patrimonio naturale, ma anche sensibilizzare sempre più l'opinione pubblica verso le tematiche della conservazione dell'ambiente.

fonte: corriere.it

Ameren rinuncia a costruire un reattore nucleare Epr negli Usa

L’impresa energetica Usa Ameren ha annunciato che non realizzerà più l’European Pressurized Reactor (Epr) il reattore nucleare che i francesi di Areva erano già pronti a costruire in Missouri. Secondo il network antinucleare "Sortir du nucléaire" «E’ quindi probabile che questa defezione sarà seguita da numerose altre».

Si sa infatti che Barack Obama, pur non dichiaratamente ostile al nucleare, non ha nessuna intenzione di spendere ingentissimi fondi pubblici necessari a realizzare nuovi impianti atomici. Ameren ha spiegato che ormai negli Usa esiste «Una legislazione che non permetterà un recupero dei costi di costruzione», un’ammissione clamorosa che chiarisce più di ogni dibattito su nucleare si e nucleare no che senza forti finanziamenti pubblici i costi di realizzazione delle centrali nucleari diventano insostenibili anche per grandi aziende che lavorano nel lucroso mercato della produzione e distribuzione dell’energia.

Ameren ha semplicemente fatto i suoi conti e ha visto che non ci avrebbe guadagnato un dollaro, un fatto davanti al quale crolla ogni dichiarazione di fede pro-nucleare. Obama, al contrario di Bush, intende finanziare prioritariamente le energie rinnovabili e pulite e non crede evidentemente che il nucleare ne faccia parte. Se ogni dollaro andrà a sole, vento, geotermia e biomasse, il nucleare non potrà risucchiare finanziamenti e Ameren sa bene che così l’elettricità atomica è troppo cara da produrre. Il progetto del salvifico Epr viene annullato e probabilmente questo sarà il segnale per una clamorosa ritirata di molti altri progetti di centrali.

E’ certo che nel ragionamento di Ameren non c’è nessuna preoccupazione ambientale, l’azienda non rinuncia per i rischi o le scorie, si tratta solo di un’implacabile legge economica: investire nel costosissimo Epr la metterebbe fuori mercato rispetto agli altri produttori di energia elettrica statunitensi. Si tratta della seconda rinuncia dopo che nel dicembre 2008 il Sudafrica aveva annullato l’accordo con i francesi che prevedeva la realizzazione di ben 12 reattori nucleari nel più sviluppato Paese africano.

Se lo si guarda bene, nel bel mezzo della crisi economica planetaria e mentre viene lanciato il Green New Deal per uscirne, il “rinascimento nucleare” somiglia più al tardo medioevo di un’energia arcaica e pericolosa che produce voragini nei bilanci statali e tensioni fortissime ed insicurezza a livello internazionale.

fonte: greenreport.it

BERLUSCONI A NAPOLI,OK ACERRA,ALTRI 4 IMPIANTI

Torna a Napoli il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Lo fa ancora una volta per i rifiuti, ad un mese dall'inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra che, dice, ''funziona benissimo''. Ribadisce che ''non bisogna avere ritardi'' e che e' ritornato ''per continuare nel lavoro che deve portare all'appalto di altri quattro termovalorizzatori in Campania''. Fa il punto, Berlusconi, in un briefing nella sede della Prefettura alla presenza, tra gli altri, del sottosegretario all'Emergenza rifiuti Guido Bertolaso, del generale Franco Giannini, vice del sottosegretario Bertolaso, del prefetto di Napoli Alessandro Pansa e del questore Santi Giuffre'. Circa un'ora di confronto i cui esiti Berlusconi voleva rendere noti ai giornalisti al termine dell'incontro. Ma urla di proteste di due cittadini abruzzesi, alla sua uscita dalla Prefettura, hanno bloccato tutto. Il premier ha fatto appena in tempo a pronunciare poche parole ''siamo al quattordicesimo briefing'', quando due trentenni dell'Abruzzo - identificati dalla Digos - hanno urlato 'vai a casa, non tornare in Abruzzo, ci stai rovinando'. E poi ancora, qualcun altro ha tirato in ballo il turismo, i posti di lavoro. Proteste che hanno convinto il premier ad andare via. Di Acerra e dei prossimi termovalorizzatori, Berlusconi aveva parlato poco prima del vertice: ''Acerra funziona benissimo, l'inquinamento e' vicino allo zero. Abbiamo li' un prototipo che e' molto utile, che dovremo riedificare in tante altre regioni d'Italia''. ''Sono a Napoli per continuare nel lavoro che deve portare all'appalto di altri quattro termovalorizzatori in Campania e a discutere sul fatto se non sia il caso di varare una legge che impedisca di lordare i luoghi pubblici e fare scritte sui muri'', ha sottolineato. ''Non dobbiamo avere ritardi. Siccome e' un po' di tempo che non riesco ad avere conferme sulle date - ha aggiunto - ho ritenuto di far venire qui Bertolaso, occupatissimo come me per la gestione del dopo terremoto che non ci deve far dimenticare le vicende e le necessita' della Campania''. ''Dobbiamo intervenire ancora per la promozione della raccolta differenziata attraverso le scuole, gli oratori, i giornali, le televisioni - ha auspicato - Siamo molto lontani dal rush finale: la differenziata non deve rimanere a questi numeri, deve arrivare molto piu' su''. Un passaggio, poi, lo riserva anche al Milan (''A fine stagione parleremo con Ancelotti'') e al Napoli (''Un giocatore che mi piace? Un calciatore no, il presidente si'...''). A fare il punto sull'incontro anche il generale Franco Giannini: ha confermato che a fine maggio aprira' la discarica di Terzigno (Napoli) e ha ribadito che a Chiaiano c'e' una ''buona discarica''. Poi, il termovalorizzatore di Acerra per il quale occorrono ''mesi di collaudo'' visto che ''e' un impianto molto complesso che ha bisogno del suo rodaggio''

fonte: ansa.it

Clima e G8, da New York a Copenaghen passando per L'Aquila

In termini di politiche ambientali globali, l'obiettivo dei grandi Paesi del mondo è quello di fare a Copenaghen quello che non riuscirono a fare con Kyoto: fissare un protocollo ambientale davvero condiviso da tutti. E per mettere a punto questa 'vera' politica globale, la via per Copenaghen passa più che mai dal G8 dell'Aquila. In questi termini il ministro per l'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ha sintetizzato a Washington il senso della prima giornata di lavori del Mef (Major Economies Forum), il forum voluto dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e che si è aperto ieri al dipartimento di Stato americano.

L'appuntamento è una delle tappe fissate per preparare il grande appuntamento di fine anno a Copenaghen, quando i Paesi del mondo si riuniranno con l'obiettivo di varare un nuovo piano comune sull'ambiente. Ma il vero appuntamento chiave per fare in modo che Copenaghen non fallisca sarà il G8 italiano all'Aquila. "Nel viaggio di preparazione verso Copenaghen, il G8 dell'Aquila è una tappa fondamentale", ha detto il ministro Prestigiacomo, che in serata insieme agli altri ministri del Mef incontra alla Casa Bianca il presidente Obama. "Come oggi ha sottolineato anche Hillary Clinton aprendo i lavori della riunione, è ormai tempo che i Paesi scoprano le loro carte e si impegnino secondo il principio delle responsabilità comuni ma differenziate".
In altre parole, è tempo che si trovino criteri comuni affinché tutti i grandi Paesi si sentano vincolati a contribuire alla riduzione dell'inquinamento globale. E da questo punto di vista l'Aquila sarà l'appuntamento cruciale dell'anno. "Perché per puntare a ottenere risultati concreti - ha sottolineato il ministro Prestigiacomo - è necessario arrivare a Copenaghen con un accordo politico forte già raggiunto a livelli di capi di governo". Questo sarà l'obiettivo dell'Aquila, un obiettivo che pone l'Italia - come ha sottolineato lo stesso Carlo d'Inghilterra nel suo intervento a Roma - sempre più al centro dello scacchiere internazionale in tema di politiche ambientali.
"Il mondo si aspetta da parte dei governi proposte concrete per orientare le produzioni - ha spiegato il ministro Prestigiacomo -. Per esempio certificati 'verdi' in funzione di produzioni 'verdi'. Vi possono essere molti strumenti per indicare una certa direzione, e per premiare coloro che su quella direzione maggiormente si impegnano". E' alla luce di questa impostazione che Copenaghen può essere finalmente il superamento di Kyoto. "Si è perso anche troppo tempo - ha sottolineato Hillary Clinton ai ministri del Mef - Bisogna recuperare il tempo perduto". Per riuscirci, il contributo dell'Italia e del G8 dell'Aquila sono considerati fondamentali.

fonte: lanuovaecologia.it
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Passatempo Preistorico

Moonstone Madness

Pronti a partire, pronti per distruggere tutto? Bene, allora fate un salto indietro nell'era preistorica e immergetevi in questa nuova avventura dal gusto tribale. A bordo del vostro cinghiale dovrete raccogliere le gemme preziose necessarie per passare alle missioni successive, saltando gli ostacoli se non volete perdere il vostro bottino e distruggendo i totem a testate per conquistare altre gemme utili. Inoltre, una magica piuma vi catapulterà verso il cielo dove punti e gemme preziose sono presenti in gran quantità, per cui approfittatene! cercate di completare la missione entro il tempo limite, utilizzando le FRECCE direzionali per muovervi, abbassarvi e saltare, e la SPACEBAR per prendere a testate i totem.

Change.org|Start Petition

Blog Action Day 2009

24 October 2009 INTERNATIONAL DAY OF CLIMATE ACTION

Parco Sempione - Ecopass 2008

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