L'oro nero resta comunque sempre il preferito dai giocatori d'azzardo delle Borse. Secondo le ultime statistiche sulle opzioni, gli investitori disposti ad acquistare il future sul Wti (il West Texas Intermediate, cioè il petrolio americano) a dicembre alla magica cifra di 100 dollari sono il triplo di quelli che puntano viceversa a venderlo a 80 dollari. Insomma, la maggioranza vede 'toro', cioè rialzo, e si aspetta altri record.
La tesi rialzista è sposata anche da Thomas Petrie, vicepresidente di Merrill Lynch, che scommette sul prossimo raggiungimento dei 120 dollari al barile. "Qui non si tratta più di capire se il petrolio toccherà i 100 dollari al barile, ma solo quando", gli ha fatto eco Kevin Norrish di Barclays Capital, che vede all'orizzonte i 110 dollari al barile. Ancora più estrema la posizione di Philip Verleger, economista indipendente specializzato nel comparto energetico, stando al quale non vi sono le condizioni per un calo dei prezzi, a meno che non si verifichi una forte recessione: "In assenza di questi fattori i prezzi potrebbero arrivare a 200 dollari al barile", sentenzia.
Ancora una volta è la finanza che indica la strada, sono i grandi manipolatori dei contratti di carta sul petrolio a dimostrarsi più influenti degli sceicchi dell'Opec, i padroni del petrolio stesso, nel dare la direzione ai mercati? Di certo le tensioni che riportano di nuovo il vecchio barile al centro dell'interesse di governanti e consumatori, di economisti e investitori - ultimamente distratti dalla crisi dei mutui subprime e dalla stretta del credito - hanno anche a che fare con la speculazione. Se ne lamenta infatti l'Organizzazione dei paesi produttori, che controlla il 40 per cento del petrolio mondiale, e che tutto il mondo pressa perché incrementi le quote nel summit di metà novembre a Ryad: "I mercati sono ben forniti, mentre le scorte si trovano a un livello molto tranquillizzante", ha detto il segretario generale dell'organizzazione Abballa El-Badri, scaricandosi della colpa delle fiammate delle quotazioni.
Ma questa volta dare ai mercati finanziari tutta la colpa sarebbe ingeneroso. Semmai, gli speculatori hanno inforcato, com'è loro costume, una situazione ideale e la stanno sfruttando con la solita abilità. Le tensioni geopolitiche fanno la parte del leone. Come se non bastassero i guerriglieri del delta del Niger, il nazionalismo petrolifero in Venezuela, l'incubo delle tempeste nel Golfo del Messico, ora la minaccia di invasione turca nel Kurdistan iracheno taglia il fiato all'apparato produttivo di Baghdad che si stava a stento riprendendo. E la partita sul nucleare in Iran potrebbe mettere in pericolo le forniture di Teheran, un export di 2,5 milioni di barili al giorno. Poi c'è il fattore dollaro: ogni volta che il biglietto verde perde quota, come sta accadendo ora, i prezzi delle commodities salgono.
Gli attuali livelli di prezzo dipendono in maniera consistente dai timori di nuovi conflitti. In complesso, il rischio geopolitico pesa, secondo alcuni esperti, per 15-20 dollari. Se però si guardano i progetti di esplorazione in corso, che assumono un livello di prezzo oltre al quale diventano convenienti, il 'rincaro-rischio' è anche di più. I fondamentali del mercato (che sommano i costi di estrazione, gli stipendi dei dipendenti, il costo delle attrezzature e via dicendo), indicherebbero infatti un livello del barile sui 40-45 dollari. È così, per esempio, nei progetti di ricerca più costosi al mondo, che sono quelli che si svolgono in Canada. Tutto quello che oggi è in più è speculazione.
fonte: espresso.it
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