La sezione lavoro della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 4 dicembre 2007, n. 25262, ha stabilito che chi ha uno scatto d’ira e dice di volersene andare per un altro lavoro uscendo dagli uffici corre il rischio di essere preso sul serio dal proprio datore di lavoro, che può considerare come effettive le dimissioni.
Fatto e diritto - Un dipendente, dopo una discussione con un collega di lavoro, che lo aveva rimproverato di avere metodi lavorativi sbagliati, di essere lento nell’esecuzione della sua prestazione lavorativa e di rispondere in modo offensivo ai colleghi, in uno momento d’ira aveva detto al suo datore di lavoro, uscendo dall’ufficio, di volersene andare per un altro lavoro.
Il suo datore di lavoro aveva preso sul serio tali dichiarazioni, accettando e considerando formali tali dimissioni.
Il dipendente allora si era rivolto al tribunale sostenendo di non aver mai presentato le dimissioni, ma che in realtà era stato licenziato per via di uno scatto d’ira.
Il Tribunale aveva ritenuto che la frase pronunciata dal dipendente fosse stata detta per una reazione spropositata ai rimproveri subiti, ma non idonea a manifestare quell’univoca ed incondizionata volontà in cui si concreta il recesso del prestatore d’opera.
Pertanto dichiarava che il rapporto non si era mai giuridicamente interrotto, condannando il datore di lavoro a provvedere al ripristino del rapporto e pagare al dipendente le retribuzioni fino al momento della sentenza, con detrazione di quanto nel frattempo percepito dallo stesso dipendente a titolo di retribuzione per un altro rapporto di lavoro, nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali per lo stesso periodo.
Contro tale pronuncia, il datore di lavoro proponeva appello denunziandone la erroneità (essendo il rapporto di lavoro cessato per dimissioni e non per licenziamento) e chiedendone l’integrale riforma.
E la Corte d’appello confermava che il dipendente con quella frase aveva manifestato al proprio datore di lavoro una vera e propria volontà di dimettersi.
Il dipendente allora ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione.
Le ragioni del dipendente - Per il dipendente, la Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare le addotte prove di carattere «presuntivo» idonee a comprovare il «licenziamento orale» intimatogli e di contrastare l’opposta tesi delle dimissioni volontarie ed avrebbe omesso di esaminare e di motivare le ragioni del mancato esame, le deposizioni rese dai testi nel corso del giudizio di appello e nel corso del giudizio di primo grado.
La Corte d’Appello avrebbe, inoltre, erroneamente desunto, in via presuntiva, che il dipendente abbia manifestato la volontà di recedere dal rapporto di lavoro solo da semplici presunzioni non concordanti con l’effettivo intimo intendimento dello stesso.
La decisione della Corte di Cassazione - Per la Cassazione, il ricorso del dipendente è destituito di fondamento.
La Corte, in particolare, ha ricordato che alla Corte d’Appello spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento.
La Corte d’Appello, infatti, proprio al fine di procedere ad una indagine accurata, ha ritenuto di disporre una integrazione dell’istruttoria esperita nel giudizio di primo grado, ritenendola carente circa «l’acquisizione dei fatti che il Tribunale ha utilizzato nel valutare le risultanze istruttorie», e ha anche proceduto ad esaminare analiticamente tutti gli elementi presuntivi addotti dal dipendente.
Dunque, la Corte d’Appello non ha trascurato di valutare il contesto in cui è maturata la decisione del dipendente di lasciare il lavoro.
La Corte di Cassazione, dunque, ha rigettato il ricorso del dipendente.
Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 25262 del 4 dicembre 2007
Scarica il documento completo in formato .Pdf
fonte: newsfood.com
Nessun commento:
Posta un commento