L'HANNO battezzata "fast fashion" perché i segreti del suo successo sono gli stessi che rendono immortale il cheeseburger: piace, costa poco e si consuma in fretta. Al prezzo di una maglia da boutique puoi comprarne 20 e cambiarne una al giorno per quasi un mese, sfamando il tuo bisogno di essere cool a morsi da 10 euro.
Questo meccanismo non alimenta solo lo sfruttamento della manodopera, spesso minorenne, ma inquina l'ambiente in modo silenzioso e progressivo. La denuncia arriva dal quotidiano britannico The Guardian che spiega quali siano i danni collaterali della moda usa e getta. Il tabloid riporta i dati raccolti dalla Defra (Department for Environment, Food and Rural Affairs) che ha analizzato l'impatto ambientale di diversi materiali tessili a basso costo. E secondo la quale la "McFashion", con il suo menu a base di jeans&T-shirt, produce ogni anno oltre 3 milioni di emissioni di diossina.
Difficile però contrastare un mercato che vive grazie alla riduzione del potere d'acquisto, capillarizzato con negozi in franchising da Londra a New York, che non segue la moda ma la detta. Star come Jennifer Lopez e Madonna hanno disegnato la linea di queste collezioni, Kate Moss è stata loro testimonial e il tutto è reso ancora più appetibile da un assortimento pazzesco. Le magliette vendute a 5 euro vengono per lo più fabbricate nei Paesi asiatici e sono fatte in cotone e poliestere. Questo mercato copre l'80% della produzione tessile del pianeta e attutisce i costi di spedizione coast to coast consentendo di risparmiare sulla qualità delle materie prime.
Vietato però generalizzare e puntare il dito contro un sistema che dà lavoro a milioni di persone e permette a tutti di vestire alla moda. Alexandra Shulman, editorialista di Vogue nel Regno Unito, è a favore della "cheap fashion": "Basta colpevolizzare le case produttrici di moda, trovo meraviglioso che si possa acquistare un vestito da sera per 20 sterline e cambiare abito ogni volta che si vuole. Provate a regalare a una teenager una costosa maglia di qualità: la indosserà una volta e poi tornerà a comprare quel miniabito floreale in fibra sintetica che ha visto in centro... Come darle torto!".
Insomma, secondo la giornalista del prestigioso magazine femminile, la moda usa e getta fa bene all'umore e al portafogli, due aspetti da non sottovalutare nell'era del trionfo degli psicofarmaci.
Daniela Tramontano è invece l'ideatrice del progetto "Il filo che unisce", concorso italiano sulla moda etica e sostenibile che nasce per sensibilizzare designer e consumatori a un approccio etico all'abbigliamento. "Ci sono aziende come la Remei AG che coltivano in India cotone biologico - spiega - nei Paesi asiatici c'è un tasso di suicidi altissimo dovuto alle condizioni in cui si è costretti a raccogliere il cotone, coltivato con pesticidi che provocano tumori e altre malattie. Una maglietta venduta a 10 euro cela un mondo di inguistizie e danni ambientali che noi possiamo solo intuire".
Paolo Zegna, vicepresidente di Confindustria e presidente di Milano Unica, il salone italiano del tessile che aprirà nel capoluogo lombardo il prossimo 16 settembre, è comunque ottimista sul futuro del mercato di qualità. "Nel mondo c'è un numero crescente di consumatori disposti a pagare un sovraprezzo per ricevere in cambio il top - spiega - questo non è in contraddizione con lo sviluppo della 'cheap fashion', direi che va in parallelo ed è su questo binario che dobbiamo attestarci".
Il tessile di qualità italiano ed europeo è eco-compatibile, rispetta normative severe e non causa danni all'uomo con l'utilizzo di tinture cancerogene. I vestiti prodotti da questo circuito costano decisamente di più ma, come dice una famosa pubblicità, ci sono cose che non hanno prezzo.
fonte: repubblica.it
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mercoledì 27 agosto 2008
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