mercoledì 21 marzo 2007

Mackey, l’ex hippy che adora il bio denaro

Come Steve Jobs è un cinquantenne con un passato da hippy; un nemico giurato del capitalismo che, a un certo punto, si trasforma in un imprenditore di straordinario successo. E, come il fondatore della Apple, qualche tempo fa John Mackey, il re dell'alimentazione organica, si è autoridotto lo stipendio a un dollaro l'anno. Il capo di Whole Foods, catena di circa 200 supermercati biologici che ha appena inghiottito «Wild Oats Marketplace», un concorrente con 110 punti vendita, oggi è un liberista convinto; anzi, è considerato un filosofo — oltre che un finanziatore — del movimento radicale libertario. Uno che partecipa ai dibattiti sulla rivista ideologica «Reason» e non nasconde la sua ostilità nei confronti dei sindacati, che una volta ha definito «parassiti». «Non è che non li voglio nella mia impresa: da me non servono, visto che alla Whole Foods i dipendenti sono trattati meglio che altrove» ha cercato di correggere il tiro qualche tempo fa proprio mentre la sua azienda, che l'anno scorso ha realizzato profitti per 1,6 miliardi di dollari su un fatturato di 5,6, cominciava a sperimentare le prime difficoltà dopo un quarto di secolo di crescita irresistibile. Lo sbarco nel settore «bio» dei leader della distribuzione commerciale «tradizionale» — Safeway, Kroger, ma soprattutto Wal-Mart, il gigante dei supermercati che fa terra bruciata ovunque arriva — lo ha infatti costretto a rivedere al ribasso le stime di sviluppo di Whole Foods che nel 2007 aumenterà il suo giro d'affari «solo» del 7-8%, dopo anni di crescita sempre a due cifre. Corrette le stime, il titolo ha perso in Borsa il 23% in un solo giorno. Mackey si è rimboccato le maniche, nel quartier generale texano di Austin ha messo al lavoro un team incaricato di differenziare in modo ancora più netto l'offerta «Whole Foods», e ha deciso di rinunciare allo stipendio: «Ho già guadagnato molto, sento di doverlo fare, non pretendo di essere un esempio per i capi di altre imprese». La metamorfosi Un ex ribelle diventato «padrone del vapore» che cerca di nascondere la sua metamorfosi? A vederlo, questo manager di 54 anni che ha ancora la faccia di un ragazzo acqua e sapone, non sembra avere nulla a che fare con l'immagine ingiallita del giovane esponente della «controcultura» di sinistra che — capelli e barba lunghissimi — trent'anni fa viveva in una comune e condannava l'impresa come strumento di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Ma non somiglia nemmeno al classico capitalista «con la bombetta». Vegetariano ed ecologista, Mackey conduce vita spartana, veste con grande semplicità, destina buona parte della sua ricchezza alla filantropia. In azienda persegue il profitto con incredibile tenacia, ma poi spiega in mille convegni che questo è il suo modo di dimostrare ai vecchi compagni che si sbagliavano: l'impresa non è il demonio, ma una straordinaria macchina per la produzione di ricchezza. E il mercato non è il luogo dello sfruttamento, ma un meccanismo democratico nel quale ognuno è libero di «votare con i suoi piedi»: se non è soddisfatto del trattamento che riceve, cambia lavoro (o fornitore). Oggi Mackey confessa che l'immagine di imprenditore impegnato nel sociale ha, per lui, un costo anche psicologico: «Sapendo da dove vengo, tutti vogliono di più, sempre: clienti, dipendenti, azionisti perfino quelli che ricevono le nostre donazioni» si è sfogato con la stampa.
I clienti, ha spiegato, considerano i prezzi troppo alti, ma l'azienda vende qualità e la qualità costa; molti dipendenti, pur ricevendo salari più alti della concorrenza, si sentono sottopagati e pensano che i soldi destinati ad attività filantropiche dovrebbero andare, invece, a loro; gli azionisti vogliono più profitti e più crescita e, alla fine, anche i destinatari delle attività di beneficenza si lamentano: un'impresa «sociale» come Whole Foods, dicono, potrebbe fare di più. Ma, alla fine, gli sforzi pagano: da anni Whole Foods è in testa a tutte le classifiche dei luoghi con le condizioni di lavoro migliori e Mackey è diventato il «testimonial » di un modo diverso di fare capitalismo. E lui non si tira indietro: partecipa a cento convegni dove, in genere, esordisce rifiutando l'etichetta di benefattore. Spiega che in giro c'è tanto scontento semplicemente perché il capitalismo, che usa il marketing e le tecniche più sofisticate di branding per sostenere la penetrazione dei suoi prodotti, non fa nulla per applicare queste tecniche su sé stesso. Così si diffonde l'immagine di un sistema nel quale l'avidità vince sulla lungimiranza. La filantropia è uno strumento che dovrebbe servire proprio a evitare questo: dovrebbe dimostrare al pubblico che l'impresa rende ricca la società non solo perché produce e distribuisce beni e servizi in modo efficiente, ma anche perché parte della ricchezza generata arriva alla società non solo sotto forma di salari e dividendi, ma anche con la partecipazione diretta ai progetti delle comunità locali. Una filosofia ripresa, in forme più blande, dai fondatori di Google. Come quella di Larry Page e Sergey Brin e - prima di loro - del fondatore di Microsoft Bill Gates e dei pionieri della Silicon Valley, Hewlett e Packard, anche la storia di John Mackey comincia in un garage: quello nel quale nel 1978, creò il primo negozio «alternativo ». Ma, a differenza dei geni dell'informatica, il suo esordio fu fallimentare: dopo un anno aveva già perso 23 mila dollari, rispetto ai 45 mila inizialmente investiti nel negozio. Alle radici del successo Cambiò registro e arrivò il successo: in un Paese in cui la massa dei consumatori reclama prodotti al più basso costo possibile, le imprese alimentari sono spinte a fare un uso massiccio di fertilizzanti, antiparassitari e antibiotici per massimizzare le rese. Un numero crescente di consumatori benestanti ha così cominciato a cercare prodotti alternativi: più costosi ma non «trattati». La nicchia è così cresciuta, fino a diventare un mercato dai grandi numeri: molto più piccolo di quello principale ma assai remunerativo. Mackey si è adeguato: i suoi supermercati cercano di mantenere un'immagine «contadina» — una volta alla settimana nel parcheggio di ogni supermercato i coltivatori della zona montano un mercatino e vendono i loro prodotti — ma i canali di approvvigionamento si sono adeguati: le modalità di produzione restano rigorosamente «bio» (leggi e controlli negli Usa sono molto severi) ma, ad esempio, le insalatine di Earthbound Farm vengono da una «fattoria» che somiglia a una multinazionale: coltiva enormi appezzamenti di terreno in sei differenti contee della California, in due dell'Arizona e anche in Colorado e in Messico. E' il «paradiso perduto, anzi venduto» del quale parlano libri come «Organic Inc.» e «Agrarian Dreams». Nel quale ora sbarca l'ammiraglio della «corazzata» Wal-Mart, Lee Scott.

fonte: corriere.it

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