Ed è solo una minima parte del piano di ripristino avviato in provincia di Mantova, l'unica di tutto il Nord a governare sulle due sponde, per giunta nel punto più vulnerabile del fiume. Qui, al centro perfetto della pignatta padana, un bacino da venti milioni di abitanti.
C'è solo il guado per arrivarci, e la jeep pattina, affonda nella plastilina, si mette di trequarti, fatica a mordere qualcosa di solido poi esce dalla mota e guadagna la dorsale. Lassù par di navigare, è come il ponte di un battello del Mississippì. Da vicino, i nuovi nati sono fusti esili, schierati per plotoni irregolari. Non è roba che vien su da sola, l'impianto è ancora un asilo-nido. Marco Goldoni, un entusiasta che dirige i lavori del Consorzio forestale padano di Casalmaggiore, mostra con orgoglio la sua nursery. Schierate su file irregolari, le creature son protette alla base da un cilindretto di plastica e da una stuoia di fibra di cocco che evita gli choc termici e l'aggressione delle erbacce. Un tubicino interrato garantisce un'alimentazione a goccia, di tipo israeliano. "Tra cinque anni toglieremo tutto, e lasceremo che il bosco si ricrei da solo".
"E' arrivato il tempo di restituire il maltolto - dice l'assessore provinciale all'ambiente Giorgio Rebuschi, nella mota fino alle caviglie - siamo la terra con meno foreste della Lombardia e ora siamo obbligati a lavorare sul benessere verde". I nuovi alberi abbatteranno di mille tonnellate l'anno le emissioni di CO2, e per questa performance l'uomo del Pd ha appena avuto dal sindaco Pdl di Roma, Gianni Alemanno, il premio "Un bosco per Kyoto". Quella di Mantova sarà anche l'unica "macchia rossa" della regione più azzurra d'Italia, ma è il verde che ne fa la differenza. Sul tema della protezione ambientale è forse quella che, paradossalmente, prende più sul serio i progetti della Lombardia formigoniana.
Il maltolto, si diceva. Un'enormità: seimila ettari. Tanto hanno rubato al fiume nel solo tratto tra Emilia e Lombardia, per metter su pioppeti industriali, piantagioni di mais, cemento, dragaggi abusivi di sabbia. Maurizio Fontanili è il presidente della provincia più "umida" d'Italia e gli tocca vivere col fucile in mano per impedire altri scempi. "In 50 anni hanno asportato 500 milioni di metri cubi di roba, con danni terribili, ma ora basta. Abbiamo messo le mani su una trentina di cavatori e la giustizia s'è messa in moto". La rapina ha abbassato il letto di quattro metri e ha messo a nudo il basamento dei piloni sotto i ponti. Sugli argini i salici non pescano più in acqua con le radici e alla fine "muoiono in piedi", dice Fontanili, mostrando i neri scheletri emergenti dalla boscaglia delle scarpate.
E' guerra al coltello contro l'estrema predazione; e ai ladri - ovviamente - il piano verde della Lombardia non piace affatto. I cartelli che indicano le oasi sono stati oggetto di atti di teppismo, e sulla stampa locale filtrano lettere di accusa dove si parla di sperpero di soldi pubblici (nonostante siano in gioco fondi europei) e sottrazione di "diritti acquisiti" ai danni dei privati. In politica è un putiferio. Uno pensa che la Lega, con la storia del "Dio Po", sia d'accordo con la riforestazione, e invece no. A tuonare contro è l'onorevole deputato Gianni Fava, capogruppo dei "lumbard" in Provincia e nel Comune di Sabbioneta, oltre che ben remunerato consigliere d'amministrazione di una decina di società di smaltimenti rifiuti. "Uno con più sedie che culi", dicono al bar di Sustinente i padani veri, che non hanno peli sulla lingua.
Ma che dice Fava? Dice: "E' uno scempio". Motivo? Mancano "studi di pre-fattibilità ambientale, indagini geologiche, geotecniche, idrologiche e sismiche". Avete sentito bene: sismiche. Le foreste crollano, è arcinoto. A nessuno al mondo verrebbe in mente di sottoporre un bosco alla valutazione di impatto ambientale (Via), ma alla Lega lombarda viene in mente eccome. "Roma da Gabibbo" ghigna un abitante dell'argine tra Ostiglia e San Benedetto, e scommette: "In Italia è più facile metter su una centrale termica che un bosco". C'è da immaginarsi cosa accade se passa il principio di sottoporre a "Via" i rimboschimenti non industriali: la paralisi dell'intero piano di riforestazione della Lombardia, una bazzecola da cento milioni di euro in cinque anni fra l'Emilia-Romagna e le Alpi.
Non è solo una questione di alberi. Il rischio è che il Po stesso scappi di mano, nel punto chiave dove nel 2000 - grazie alla rottura "tecnica" dell'argine - la pianura si salvò da un'alluvione simile a quella del 1951. Da qualche anno, dopo la legge Tremonti sulla "cartolarizzazione" (leggi vendita o svendita) dei beni demaniali, si sono incautamente privatizzati pezzi di golena - gli spazi allagabili tra l'argine e il fiume - con l'effetto che l'autorità di bacino oggi non ha più autorità assoluta sulla gestione del Po. Ma la natura segue testardamente il suo corso. Nonostante i dissesti idrogeologici, da quattro-cinque anni sono tornate le albanelle reali, piccoli rapaci che l'inquinamento aveva messo in fuga. Nelle campagne la volpe fa tana ovunque, i caprioli sono scesi al fiume e qualcuno l'ha pure attraversato a nuoto. C'è anche qualche nuovo venuto come il gruccione, un bell'uccello azzurro che nidifica sulle scarpate in erosione.
"Sono tornate anche le lucciole, e l'argine si riempie di usignoli" racconta Valeria Formigoni che gestisce un tranquillo "Bed & breakfast" alla confluenza fra il Po e la Secchia. "Questo è un luogo dell'anima", dice del suo piccolo mondo sotto l'argine, dimenticato dai deliri speculativi. Intorno non c'è più niente di dritto, il rettilineo muore, l'argine disegna fantastiche circonlocuzioni, il piattume è inciso ovunque dagli spostamenti del Dio-Serpente: meandri, scarpate ricurve nel nulla, virgole, parentesi, immensi geroglifici, tracce antiche di un'acqua che non accetta il governo degli uomini. In qualche secolo è cambiato tutto. Il Po correva più a Sud, a Suzzara c'era un fiume di nome Zara che ora è solo un fosso, la Secchia era un pezzo di Po, l'Adda arrivava fino a Pizzighettone e l'Oglio confluiva nel Mincio. Il Po era semplicemente "il fiume". Anzi, "la fiuma", come lo chiamano i rivieraschi, visto che l'acqua - fino a prova contraria - è femmina.
Risaliamo un tratto del fiume verso Governolo, dove papa Leone fermò Attila invasore, e la raffica di colpi del picchio segna l'ingresso in un altro mondo, quello delle golene, ultimo spazio comunitario in un Paese sbranato dagli egoismi. "Grazie" al rischio alluvioni, il Dio Fiume l'ha protetto dalle speculazioni più sfacciate, e anche qui si lavora al ripristino del bosco. Ma è una fatica di Sisifo, perché c'è un'altra guerra da combattere, quella contro i rifiuti. Se lo spazio fosso privo d'alberi, l'immondizia padana passerebbe oltre, invece con le nuove piantine che fanno da ostacolo, l'orrenda verità si mostra. Ecco come l'Italia onora il Dio Fiume: bottiglie di plastica, fustini, frigoriferi, bombole di gas, lavandini. E ancora cucine economiche, scarpe, carcasse di automobili, carogne di animali, il tutto in un marciume di legname. Tutta roba da portar via, con costi enormi sulle spalle "virtuose" di chi rimboschisce.
Il campanile di Borgoforte batte mezzogiorno e il tapis roulant del fiume esce dalle brume con gorghi e smagliature, segni arcani di qualcosa di terribile. "Ora va a 400 metri cubi al secondo, ma nelle piene arriva a tredicimila, non c'è Danubio che tenga", sorride Umberto Chiarini da Roncarolo, roccioso difensore delle acque padane. E racconta del mito di Fetonte, che volle guidare il carro del Sole e finì per cadere nel Po. "Le ninfe che lo piansero divennero il pioppo e il salice". Guarda un po': agli antichi era già chiaro che tra acqua, Sole, terra e alberi il legame era indissolubile. Oggi che il Sole è mangiato dallo smog, la terra dalla speculazione e l'acqua dai veleni, restano solo gli alberi a impedire la fine del mondo.
fonte: repubblica.it
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