Con sentenza del 26 marzo 2008, n. 7871, la sezione lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che al dipendente può essere riconosciuto il risarcimento per la dequalificazione subita in base a una prova presuntiva, a condizione che il giudice sia in possesso di una valutazione complessiva di tutti gli elementi dedotti sulla base dei quali poter esprimere il suo giudizio.
In altre parole, il dipendente può dimostrare in giudizio il demansionamento con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento e fra questi anche attraverso la prova per presunzioni.
Fatto e diritto
Una società era ricorsa alla Corte d'appello contro la sentenza del Tribunale che l’aveva condannata a risarcire il danno per la dequalificazione al dipendente, subita per essere stato declassato da manutentore elettrico, con autonomia e discrezionalità esecutiva, a collaudatore.
Le mansioni di 3° livello, notevolmente inferiori alle precedenti di 5° livello, si erano protratte per oltre un anno ed avevano comportato un danno sia per la perdita, almeno parziale, delle acquisite conoscenze professionali, sia per la vita di relazione nell'ambito lavorativo.
La decisione della Corte d’appello
La Corte d'appello rigettava il ricorso della società sia con riguardo al merito che con riguardo all'eccezione di improcedibilità della domanda perché per la stessa il tentativo di conciliazione obbligatorio era stato proposto dal dipendente solo per il demansionamento e non per l'azione risarcitoria ed il giudice si era riservato di provvedere unitamente al merito, senza però pronunciare in proposito.
Il motivo d'impugnazione era, però, infondato, in quanto, a parte la dubbia rilevabilità in appello dell'improcedibilità della domanda di risarcimento, la stessa non era totalmente autonoma rispetto a quella relativa al mutamento di mansioni, essendo questa il necessario presupposto della prima, «considerando anche che, del tutto verosimilmente, in sede di tentativo di conciliazione venne dal dipendente avanzata oralmente una qualche richiesta risarcitoria».
Nel merito, l'art. 2103 c.c., nel disciplinare lo «jus variandi» del datore di lavoro, vietava l'assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di assunzione (come era avvenuto nella specie) e sanzionava con la nullità i patti contrari: per la Corte, quindi, era illegittima l'attribuzione al dipendente di mansioni inferiori.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della società condannata a risarcire il lavoratore dequalificato ed ha confermato la sentenza della Corte d’appello.
Per la Cassazione, le esigenze aziendali addotte per giustificare la legittimità del provvedimento non avevano trovato adeguato riscontro istruttorio poichè il posto di manutentore già occupato dal dipendente non era venuto meno e, dopo qualche giorno, era stato occupato da un altro dipendente proveniente da un’altra società che, peraltro, non aveva adeguata esperienza.
Il risarcimento del danno poteva essere riconosciuto anche in difetto di una specifica prova, sia perché il danno poteva presumersi in base alla natura, entità e durata del demansionamento, sia perché la violazione dell'art 2103 c.c. comportava la lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro ed un pregiudizio alla vita professionale e di relazione.
Quindi, per la Cassazione, la società non aveva dimostrato che le esigenze aziendali addotte per giustificare il demansionamento legittimassero la dequalificazione da manutentore elettrico a semplice collaudatore, che era stata realizzata, peraltro, sostituendolo con un lavoratore meno esperto.
Per la Cassazione, il giudice d'appello, indicando le fonti del suo convincimento, ha dimostrato d'avere preso in esame tutte le deposizioni da cui, secondo il ricorrente, emergerebbero i motivi dell'assegnazione a mansioni inferiori e quindi il motivo si risolve in una diversa lettura degli atti, investendo direttamente la valutazione del giudice di merito e non la logicità e congruenza della motivazione.
Inoltre, la Cassazione ha evidenziato che il risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione«va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 Cpc, a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.
Il giudice di merito, pur dichiarando erroneamente che «in caso di demansionamento può farsi luogo al risarcimento del danno anche in mancanza di uno specifico elemento di prova», ha poi di fatto riconosciuto il diritto del lavoratore sulla base di una prova presuntiva dettagliatamente indicata con motivazione logica e coerente
Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 7871 del 26 marzo 2008
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