mercoledì 19 dicembre 2007

Il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito

Il Consiglio di Stato, sezione quinta, con decisione del 23 novembre 2007, n. 6015 ha rigettato i ricorsi di una dipendente comunale e confermato il provvedimento di licenziamento senza preavviso inflitto alla stessa che si era assentata ingiustificatamente e che poi aveva lamentato che il Comune dal quale dipendeva non aveva messo a conoscenza i dipendenti, tramite affissione, della possibilità di ricorrere entro il termine di 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito.


Per il Consiglio di Stato, se non sono riportati termini e autorità alla quale ricorrere, l’atto non è illegittimo, ma costituisce il presupposto per il riconoscimento della scusabilità di un eventuale errore. Pertanto il dipendente che sostiene di aver avuto saputo della possibilità durante la stesura del ricorso di primo grado, può adire il collegio arbitrale di disciplina invocando il principio dell’errore scusabile e chiedendo la riammissione in termini.
Il Consiglio di Stato ha, quindi, ribadito che il procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore deve concludersi nel termine perentorio di 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito. E tale perentorietà deve essere considerata con riguardo all’adozione della sanzione e non alla successiva comunicazione alla dipendente.

Fatto e diritto - Una dipendente di un Comune ha proposto appello contro la sentenza del Tar con la quale è stato dichiarata inammissibile la sua richiesta di dichiarare nulla la deliberazione della Giunta comunale avente ad oggetto la sua destituzione dal servizio.
Le ragioni della dipendente del Comune
Per la stessa, la sentenza era inammissibile perché fondata sulla carenza di interesse all’annullamento dell’atto impugnato in quanto con provvedimento successivo, ma notificato prima della notifica del ricorso stesso, ella è stata licenziata senza preavviso ed il relativo ricorso è stato respinto.
Inoltre tale sentenza è errata e perché la pronuncia di rigetto del ricorso avverso il licenziamento non era passata in giudicato.
La dipendente è ricorsa in appello anche contro la sentenza dello stesso Tar che aveva respinto l’impugnativa della determinazione di applicazione nei suoi riguardi della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso per violazione del CCNL per il personale del comparto regioni-enti locali, per violazione della legge sul collocamento obbligatorio e per eccesso di potere per errore nei presupposti o illogicità manifesta, nonché travisamento dei fatti.
Tali ricorsi in appello sono stati riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
Quanto alla mancata indicazione nel provvedimento dei termini e dell’autorità a cui era possibile ricorrere, la dipendente ha precisato, in appello, di aver lamentato anche la mancata indicazione che ella avrebbe potuto proporre impugnazione entro 20 giorni davanti al collegio arbitrale di disciplina previsto dall’art. 59 (comma 7), del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29; collegio al quale ella avrebbe potuto chiedere un riesame del merito, mentre le censure attinenti al merito sono precluse in sede giurisdizionale.
Inoltre il Comune non avrebbe dato adeguata pubblicità al CCNL (il cui cit. art. 24, comma 10, fa rinvio per quanto non previsto all’art. 59 del decreto legislativo n. 29 del 1993), anche consegnandone copia a ciascun dipendente, sicché l’omissione di cui si discute appare irrilevante sol che si consideri come la possibilità di ricorrere al collegio arbitrale sia assistita da presunzione legale di conoscenza.

La decisione del Consiglio di Stato - Per il Consiglio di Stato, l’assenza delle suddette indicazioni non comporta l’illegittimità del provvedimento, ma costituisce presupposto per il riconoscimento della scusabilità di un eventuale errore. Dunque la dipendente che ha dato prova di conoscere tale possibilità quanto meno alla data di stesura del ricorso di primo grado e, pur potendo adire il collegio arbitrale di disciplina per la riammissione in termini, ma non lo ha fatto.
Per il Consiglio di Stato, inoltre, in relazione alla violazione delle leggi sul collocamento obbligatorio addebitato dalla dipendente al Comune, il grado della sua invalidità non era incompatibile con le mansioni assegnatele ed ha contestato alla dipendente di aver continuato a inviare certificati medici pur dopo la comunicazione del Comune che ribadiva l’impossibilità di proseguire l’assenza dal servizio in base a patologia per la quale la ASL aveva accertato l’idoneità alle sue mansioni con esclusione di lavori che comportassero carichi alla colonna vertebrale.
Quindi, per il Consiglio di Stato, non è giustificata la persistente volontà di assentarsi dal servizio nonostante l’avvenuta comunicazione del menzionato giudizio di idoneità. Inoltre, la nota di contestazione di addebito con cui veniva ribadita l’impossibilità di proseguire l’assenza e le violazioni al dovere di rimanere a casa per consentire visite di controllo in determinate fasce orarie, senza offrire alcuna giustificazione idonea denotano un comportamento complessivo della dipendente inaccettabile che, su dodici anni di permanenza nei ruoli comunali, è risultata in servizio per solo tre, per il resto assentandosi per malattia o infortuni spesso ritenuti inattendibili dall’Inail.
Per il Consiglio di Stato, la dipendente avrebbe trasformato eventuali assenze dovute a temporanei motivi di salute impeditivi del servizio in un costante rifiuto a prestarlo, adducendo le stesse patologie per le quali la U.s.l. l’aveva ritenuta idonea.
Inoltre, la dipendente non aveva avvertito l’esigenza di riprendere servizio neppure dopo il ricevimento della contestazione di addebiti. nella quale si ribadiva come non potessero tollerarsi ulteriori assenze.
E le assenze dal proprio domicilio durante le fasce orarie non dimostravano la sussistenza di «necessità assolute ed indifferibili» in presenza delle quali soltanto il dipendente pubblico può derogare all’obbligo di presenza in casa nelle fasce orarie in questione.

Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza n. 6015 del 23 novembre 2007
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fonte: newsfood.com

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