giovedì 24 gennaio 2008

Mobbing, quando il lavoro fa ammalare

L'impiegata che al rientro dalla maternità trova la sua scrivania occupata da un'altra persona e viene relegata ad una mansione secondaria; il capoufficio che si ritrova senza più nessuno da dirigere e senza neppure un incarico preciso per se stesso; il giovane operaio emarginato e costretto a fare i turni peggiori per avere chiesto maggiori tutele sindacali; la cassiera del supermercato che per aver rifiutato le avances di un superiore si è ritrovata spedita dietro al banco del pesce, al freddo e in mezzo al persistente odore di trote e molluschi. Basta andare in un qualsiasi giorno allo sportello mobbing della Camera del lavoro di Milano, uno dei tanti aperti sul territorio nazionale per raccogliere denunce e segnalazioni (■ In Italia un milione e mezzo di casi), per entrare a contatto con le storie di chi il mobbing l'ha subito e ne porta ancora le conseguenze. Non tutti vogliono raccontare i dettagli della loro storia, perché magari le vertenze con i datori di lavoro sono ancora in corso e non vogliono esporsi, neppure dietro garanzia di anonimato, prima di un pronunciamento del giudice del lavoro. Ma c'è anche qualcuno che vuole rompere il silenzio e ci fa assistere al colloquio con la rappresentante legale del servizio. Come ad esempio R. F,42 anni, che prima di ritrovarsi immersa nella trafila del riconoscimento del danno biologico era una manager informatica di successo.

LA MANAGER - R. F continua ad essere un quadro e una dipendente della multinazionale informatica con sede a Milano insieme ad altri duemila dipendenti. Ma la sua vita è cambiata: «Dopo 9 anni di assunzione mi ritrovo a impugnare una vertenza per dequalificazione professionale e mobbing. Il raggiungimento degli obiettivi è stato uno dei miei punti di forza. Ma l'azienda mi ha colpito, spostandomi improvvisamente e senza motivo e ridimensionando il mio ruolo di quadro». «Non sono nelle condizioni di potermi licenziare – dice ancora la donna - e non ho assolutamente intenzione di accettare il riconoscimento di 25.000 mila euro che mi ha proposto l'azienda per un licenziamento concordato. Dal 2002 quando è iniziato il mio calvario ad oggi mi è successo di tutto. Ho sempre cercato di conciliare, accettando la progressiva dequalificazione. Sono finita a fare le fotocopie e a svolgere le mansioni di una stagista appena assunta. Negli ultimi cinque anni ho iniziato a prendere psicofarmaci per reggere l'urto e non perdere la calma. Ma adesso non ce la faccio più».

LA PEDIATRA – G.M.L., 49 anni è invece pediatra, un lavoro che ha amato fin dal primo giorno in cui ha indossato il camice bianco. Ed è una signora battagliera che nel giorno del suo ennesimo appuntamento allo sportello mobbing si presenta non con una borsa, ma addirittura con una valigia azzurra, tanta è la documentazione a sostegno delle sue rivendicazioni. Quando la apre spuntano cinque faldoni colorati pieni zeppi di prove. Sul tavolo del legale incaricato la aspetta una pratica di "richiesta ex art 410 D.Lgs 165/01 – Discriminazioni e vessazioni sul luogo di lavoro da parte dei preposti – risarcimento del danno biologico patrimoniale e morale" da inviare alla azienda ospedaliera presso cui operava. «Dopo che ho dato anima e corpo all'ospedale – racconta G.M.L. -, nel 2001 senza nessuna comunicazione preventiva sono stata rimossa dal mio reparto. Mi hanno emarginato da un giorno all'altro. Hanno iniziato con le riunioni di reparto alle quali mi hanno impedito di assistere, senza motivo. Poi, una mattina ho trovato la mia scrivania fuori dal reparto, nel corridoio. Il motivo? Giochi di potere e cambio del primario».


LA REDATTRICE - Non è diversa l'avventura di F.G. una editor-redattrice di 31 anni che vive e lavora a Roma, assunta presso una casa editrice della provincia. Dopo circa tre anni la sua esperienza si è esaurita e ora ha avviato una vertenza per mobbing contro l'ex datore di lavoro. Ce la racconta con dovizia di dettagli. «Ero coautrice di un'opera originale – spiega F. G. - , nonché responsabile redazionale ed editor di una rivista. In 12 mesi, ho curato, l'editing delle sceneggiature per un totale di una ventina di puntate. Un lavoro mastodontico, di invenzione e coordinamento, che altre case editrici preparano in almeno tre anni e che invece noi abbiamo contratto in poco più di un anno, per una volontà della direzione di pubblicare in tempi record il prodotto. Ho lavorato a ritmi folli: straordinari quasi tutti i giorni, lavoro a casa, di notte e in molti fine settimana. Scrivevo di persona molti di questi pezzi, facevo editing degli articoli scritti dai collaboratori esterni, svolgevo l'intera ricerca iconografica».

L'INIZIO DELL'INFERNO – E' un fiume in piena F.G : «Il prodotto era bellissimo, riscuoteva notevole interesse tra gli addetti ai lavori, anche all'estero. Ma non vendeva bene. Una spinta pubblicitaria inesistente, "competitor" molto forti in un mercato editoriale selvaggio e incostante, uno studio di marketing troppo frettoloso e approssimativo». E al problema non si cercavano né le cause né le soluzioni. Improvvisamente la posizione di F.G, inizia a vacillare. «Il mio capo cercava a quel punto solo di "scagionarsi" dal fallimento attraverso capri espiatori: ed uno di quelli ero io insieme ad altri colleghi. Il suo atteggiamento nei miei confronti cambiò radicalmente. Un mobbing sottile fin dall''inizio, poi sempre più manifesto e sfibrante che ha preso per mano dopo un anno il mio licenziamento».

IL LICENZIAMENTO - «Hanno iniziato escludendomi dai nuovi sviluppi legati al mio progetto. Un giorno ero la creativa che doveva avere una visione progettuale e delegare agli altri redattori, un altro ero la correttrice di bozze che non doveva farsi sfuggire una virgola. Dopo una serie di vessazioni, aggressioni verbali davanti ad altri colleghi, si disprezzava il mio lavoro, addirittura dichiarandolo "un senso di vergogna". Poi si è passati al demansionamento: con l' affidamento di miei progetti originali ad altri colleghi e la riduzione drastica delle mie mansioni. Mi sentivo inutile come risorsa». C.F è stata licenziata. Una come tante. « A nulla è valsa la mia mansuetudine nell'accettare incarichi più semplici, né i ripetuti e sinceri tentativi di confronto aperto con i capi».Ora, come altri sconosciuti invisibili, nascondendo il suo anonimato per proteggersi, cercherà un altro posto di lavoro. Senza sapere bene il perché.

fonte: corriere.it

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