giovedì 19 luglio 2007

"E' diventato un mare di plastica"

Bottiglie di plastica, piatti usa-e-getta, bicchieri monouso, posate, spazzolini da denti, ma anche caschi, cavi, giocattoli da spiaggia, profilattici e siringhe: il Mediterraneo rischia di morire strangolato. Nella morsa dei rifiuti di plastica è il mare più a rischio dell'intero pianeta. Sulle onde del mare nostrum ci sono duemila frammenti di materiali plastici per chilometro quadrato, dice una ricerca di Greenpeace realizzata per l'università di Exeter. È vero, gli oceani sono comunque tutti inquinati, con sei milioni e 500 mila tonnellate di buste, involucri, imballaggi che galleggiano sulle acque. Ma la distribuzione non è uguale, e il Mediterraneo ha due problemi: la conformazione, che non permette un ricambio veloce, e l'altissima concentrazione umana sulle coste. Insomma, le acque su cui è nato il commercio, quelle su cui è stata costruita la prima civilizzazione, rischiano di essere soffocate definitivamente dagli eredi delle civiltà più antiche, indisciplinati e sporcaccioni. Ed è utile sottolineare che secondo l'organizzazione ambientalista le acque più inquinate sono quelle delle coste settentrionali: Spagna, Francia, Italia. È un fatto, dicono gli esperti, che a inquinare maggiormente oggi sono i Paesi costretti al maggiore sforzo di industrializzazione, mentre nelle nazioni più ricche si è sviluppata una sensibilità ambientale. "Ma abbiamo a che fare con materiali che hanno una vita lunghissima", osserva Alessandro Giannì, responsabile della campagna oceani per Greenpeace Italia. "I paesi di nuova industrializzazione buttano la plastica da pochi anni, mentre sulle coste dei paesi più sviluppati resta quella gettata da tantissimo tempo".
Dunque non si può sperare sulle già provate capacità di "digestione" del nostro mare: perché le buste dei supermercati si deteriorino completamente, ci vuole quasi la metà di un millennio, in media 450 anni, valuta il portavoce della campagna oceani di Greenpeace, Sebastian Losada, appena sbarcato a Barcellona dopo una crociera di esplorazione nel Mediterraneo con la Rainbow Warrior II. La plastica in mare, sottolinea il rapporto, non è solo una questione estetica, di pulizia dei litorali o delle acque costiere. I frammenti sono pericolosi per almeno 267 specie di pesci, foche, tartarughe, cetacei e uccelli marini, che spesso rimangono soffocati, dopo aver ingoiato i resti di una busta scambiata per qualcosa di commestibile. In più, aggiunge l'esperto italiano, le materie plastiche possono rilasciare in acqua sostanze tossiche come gli ftalati. Naturalmente quello che si vede è solo una parte, diciamo il 15 per cento: il fondo degli oceani accoglie il 75 per cento, un altro 15 è in sospensione a mezz'acqua, precisa Mario Rodriguez, direttore della campagna di Greenpeace. E non ci sono zone franche: "Anche nel vortice del Pacifico settentrionale, lontanissmo da qualsiasi rotta commerciale, abbiamo trovato rifiuti, portati dalle correnti", aggiunge Giannì. Per poi cambiare argomento e lanciare un primo allarme sulla prossima emergenza annunciata: "È quella del fango. Ogni attività umana sulle coste produce materiali di riporto, e finisce per aumentare l'input sedimentario, cioè in parole povere la terra che andrà a ricoprire il fondo marino. Basta arrivare a Roma in aereo per rendersene conto: l'acqua delle coste ha un altro colore".

fonte: repubblica.it

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