giovedì 25 giugno 2009

L'obiettivo russo sulle emissioni? Aumentarle

Anche la Russia scende in campo nella lotta al global warming. Sotto la presidenza Putin il paese aveva sempre rifiutato impegni di riduzione delle emissioni, con la solita giustificazione della difesa dello sviluppo economico e del benessere della popolazione. Con il discorso tenuto dal presidente Dmitry Medvedev venerdì scorso, il terzo emettitore mondiale ha annunciato finalmente un impegno preciso. Ed eccolo qui: al 2020 aumenterà le emissioni del 30% rispetto ai livelli attuali. Proprio così, anche se Medvedev lo ha detto con parole diverse: il traguardo che il paese si pone è di diminuire la CO2 emessa del 15% rispetto ai livelli del 1990. Ma va detto che nel 1990 il paese aveva tutt’altra economia, con le industrie pesanti sovietiche ancora in piena attività, e il livello delle emissioni allora era del 37% superiore a quello del 2007.

Così, se già in generale ridurre del 10-15% rispetto ai livelli del 1990 è comunque poco, considerando la situazione specifica della Russia emerge quello che denunciavamo all'inizio: in pratica, dal 2007 al 2020 le emissioni passeranno da 2,2 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente a 3 miliardi.
E qui entra in campo una questione aperta in vista del vertice di Copenhagen: considerare un anno unico di riferimento per la riduzione delle emissioni per paesi con storie diverse rischia di essere iniquo. La delegazione australiana durante gli ultimi negoziati ha proposto infatti che ogni nazione possa scegliere l’anno di riferimento. Ma così facendo risulterebbe pressoché impossibile programmare i tagli globali da fare, sui quali invece l’International Panel on Climate Change si è espresso chiaramente.

L’IPCC infatti auspica, per contenere il riscaldamento globale entro la soglia dei 2 gradi, che i paesi industrializzati taglino la CO2 almeno del 25-40% rispetto ai livelli del 1990, mentre i paesi in via di sviluppo e le principali associazioni ambientaliste chiedono a quelli ricchi di tagliarle almeno del 40%.
Che si consideri come riferimento il 1990 o il 2007 l’obiettivo russo è comunque ampiamente inadeguato e si configura come un nuovo ostacolo sulla strada per Copenhagen, a dicembre. Un impegno insufficiente della Russia va così a sommarsi agli obiettivi inadeguati di paesi come Giappone, Canada e Australia ben lontani dalla soglia minima del 25%. L’obiettivo giapponese per il 2020, anche questo fresco di annuncio, è infatti di tagliare del 15% rispetto ai livelli del 2005. Un impegno che se considerato in riferimento al 1990 risulta ancora più modesto, pari a una riduzionedel 6-8% (al contrario della Russia infatti il Giappone aveva emissioni molto più basse 19 anni fa).
Ma nemmeno gli Stati Uniti che, nella retorica obamiana, avrebbero dovuto essere il faro nella lotta al global warming, si avvicineranno alla soglia minima del 25%. Il delegato Usa sul clima, Todd Stern, ieri ha ribadito che un taglio del 40% rispetto ai livelli del 1990 come quello voluto da ambientalisti e paesi poveri è “non fattibile e non necessario”, e che una simile riduzione era già fuori discussione. Non c’è infatti bisogno di attendere la votazione dell’annacquato Climate Bill, venerdì prossimo, per valutare l’obiettivo americano: Obama ha sempre dichiarato che l’obiettivo 2020 è di ridurre le emissioni del 17% rispetto ai livelli del 2005, che significa semplicemente riportarle al livello del 1990. Oggi intanto il commissario europeo all'Ambiente, Dimas, ha assicurato che al vertice di Copenaghen l'Europa punterà per un accordo che punti a una riduzione tra il 20 e il 30% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990, entro il 2020
Insomma, la strada per Copenhagen sembra tutta in salita e la media delle riduzioni annunciate finora dai paesi ricchi è ancora molto lontana da quel 30-40% che chiedono in molti. Non si arriva, infatti, che al 14%.

fonte: qualenergia.it

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