mercoledì 28 maggio 2008

Export e ripresa della competitività

L'occupazione continua a crescere, le esportazioni mostrano una "buona tenuta", molte imprese, a cominciare da quelle del tessile e della meccanica, recuperano competitività: il made in Italy non è morto e risponde alle sfide della globalizzazione. Ma il sistema Paese arranca. Il Rapporto Annuale dell'Istat mostra un cauto ottimismo sull'andamento del sistema Italia, cercando nelle pieghe delle analisi congiunturali e di periodo la conferma che quel +0,4% registrato dal Pil del primo trimestre 2008, superiore a tutte le aspettative degli economisti, non è un fatto casuale, anche se il Paese ha alle spalle un decennio di crescita debole, che ne ha "marcato un allontanamento dai livelli dei suoi principali partner". Un allontanamento che riguarda tutti i parametri, dalla competitività al reddito per abitante: l'impoverimento medio degli italiani rispetto all'insieme degli abitanti dell'Ue15 è di circa 13 punti percentuali. Nel 2000 invece il valore del reddito per abitante degli italiani era ancora superiore di 4 punti rispetto alla media Ue15.

"L'Italia - ha detto stamane il presidente dell'Istat Biggeri presentando il Rapporto Annuale alla Camera dei deputati - è in un momento di difficoltà economica, con investimenti e consumi delle famiglie fermi o in regresso. Affinché gli uni e gli altri tornino a crescere e aumenti il reddito delle famiglie più in difficoltà, occorrono interventi energici". E tuttavia, aggiunge Biggeri, "Siamo prudentemente ottimisti", anche perché "sono molte le imprese che si sono riorganizzate e che hanno colto le trasformazioni in atto, sfruttrando le opportunità di espansione sui mercati internazionali, soprattutto verso quelli più ricettivi".

Non si può pertanto parlare di ripresa, neanche di 'ripresina', sia perché gli aspetti positivi dell'economia sono modesti, sia perché sono distribuiti in maniera disomogenea e in molti casi accentuano le già profonde differenze tra le aree del Paese. Favorendo ancora di più un fenomeno che l'Istat aveva già annunciato nel Rapporto dell'anno scorso: la ripresa dell'emigrazione da Sud a Nord. Chi non si trasferisce spesso finisce in una 'zona grigia': non lavora, ma non cerca più neanche il lavoro. Ma anche chi lavora soffre per la mancanza di attività qualificate, dovuta a una latitanza delle nostre imprese nella formazione. Soltanto la Bulgaria e la Grecia in Europa hanno un tasso inferiore a quello italiano di imprese "formatrici".

Le nuove migrazioni. Il "movimento migratorio interno" in effetti ha ripreso vigore già a partire dalla metà degli anni Novanta, ma in particolare tra il 2002 e il 2005 si contano in media circa 1,3 milioni di trasferimenti l'anno. Ma è un'immigrazione interna diversa dal passato: non si va più nelle grandi metropoli come Milano, o a Torino a lavorare alla Fiat. Le nuove mete sono i distretti industriali del Nord-Est, in parte del Nord-Ovest, dell'Emilia Romagna e delle Marche. In testa città come Arzignano in Veneto, o Salò in Lombardia. Mentre le zone di provenienza sono sempre le stesse: l'Istat parla di "network dei sistemi locali con forte disoccupazione", Crotone, Torre del Greco. Le regioni dalle quali ci si sposta di più sono Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.

Il divario economico tra Nord e Sud. A spostarsi non sono solo gli italiani ma, soprattutto, gli immigrati, naturalmente più mobili, e più motivati nella ricerca del benessere. Del resto i numeri delle varie zone del Paese parlano chiaro: per mille residenti in età di lavoro (15-64 anni) il numero medio di imprese è di 127 nel Nord, 125 nel Centro e 88 nel Mezzogiorno, mentre quello dei posti di lavoro nel settore privato è di 545 nel Nord, 466 nel Centro e 274 nel Mezzogiorno.

Bene le esportazioni. Tra il 1995 e il 2006 le esportazioni delle imprese manifatturiere italiane sono aumentate del 34 per cento. Il Mezzogiorno nel suo complesso ha registrato una performance quasi doppia (63,6 per cento) grazie soprattutto all'Abruzzo e alla Sicilia (dove il dato è influenzato dalla presenza delle attività petrolchimiche). Tuttavia buona parte della crescita è da attribuire alle circoscrizioni del Nord (circa l'80 per cento della variazione complessiva) con incrementi superiori al 40 per cento in Lombardia ed Emilia Romagna. I sistemi locali della meccanica spiegano quasi il 20 per cento della crescita delle esportazioni.

Bene petrolio e tessile, male il calzaturiero. La produttività del lavoro negli ultimi dieci anni ha avuto un andamento molto debole, in alcuni casi negativo. Ma ci sono settori che sono cresciuti e, in molti casi, si tratta di settori tradizionali del made in Italy, che si sono riorganizzati, anche attraverso la delocalizzazione, senza riposizionarsi. Tra il 1999 e il 2005 gli andamenti migliori sia sotto il profilo della crescita che della competitività si sono registrati nelle medie e grandi imprese petrolifere, nell'industria siderurgica e in quella dei supporti della stampa e della registrazione. Nello stesso periodo segnali di recupero di competitità sono arrivati dalle microimprese dell'abbigliamento, della lavorazione di minerali e della fabbricazione di apparecchi radio-tv. In declino invece le medie e grandi imprese del comparto conciario-calzaturiero, della lavorazione di minerali e della chimica.

L'international sourcing. Ma per resistere e competere con la globalizzazione per molte imprese la strada obbligata è stata quella della delocalizzazione, che ha portato a una perdita di posti di lavoro nel complesso, ma anche alla creazione di posti di lavoro più qualificati in Italia. Ad andare all'estero sono soprattutto le grandi imprese dell'industria: una su due tra il 2001 e il 2006 ha trasferito l'attività principale o secondaria dell'impresa. La molla principale è la riduzione del costo del lavoro, ma anche la volontà di accedere a nuovi mercati.

L'occupazione cresce, la formazione scarseggia. La disoccupazione in Italia è in calo costantemente dal 1999. Ma è un fenomeno bifronte: infatti l'Istat rileva costantemente almeno dal 2003 uno 'scoraggiamento' delle forze di lavoro, soprattutto donne e giovani, soprattutto nel Mezzogiorno. Nella 'zona grigia' di chi vorrebbe lavorare ma non ha più la forza di mettersi a cercare, l'Istat ha rilevato nel 2007 1.213.000 individui. Ma neanche tra gli occupati le cose vanno benissimo: a frenarne la produttività c'è anche la cronica mancanza di formazione. L'Italia si colloca al terzultimo posto in Europa, prima di Bulgaria e Grecia, per la quota di imprese che svolgono attività di formazione continua del proprio personale. Le imprese 'formatrici' sono comunque passate dal 24 al 32 per cento tra il 1999 e il 2005. Di contro, il costo orario della formazione per le imprese italiane è tra i più alti d'Europa, circa 58 euro, contro la media Ue di 52.

Redditi bassi e forti disuguaglianze. Anche chi ha un lavoro negli ultimi anni ha sofferto una forte erosione della retribuzione, un fenomeno tutto italiano che si è accentuato negli ultimi anni. Il reddito netto delle famiglie residenti in Italia nel 2005 è pari in media a 2.300 euro mensili. Ma è distribuito in maniera molto disuguale, tant'è vero che il 50 per cento delle famiglie ha guadagnato meno di 1.900 euro al mese. Le famiglie in cui il principale percettore è una donna guadagnano, in meno, il 27 per cento in meno rispetto alle altre. Le retribuzioni in Italia crescono decisamente meno che in altri paesi europei. In 10 anni, dal 1995 al 2006, le retribuzioni orarie reali sono aumentate infatti del 4,7 per cento a fronte di una crescita cinque o sei volte più consistente registrata in Francia e in Svezia. Particolarmente contenuto anche lo sviluppo della produttività del lavoro. Nel periodo considerato, infatti, è cresciuta di appena il 4,7%, mentre la media dell'Unione europea a 15 segna un aumento del 18%.

fonte: repubblica.it

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