martedì 31 marzo 2009

E´ l´ecologia, stupido!

Il concetto più ovvio dell’economia ecologica è che… l´ecologia viene prima dell’economia. «Ad esempio - spiega Joshua Farley, economista dell’Università del Vermont - senza ecosistemi sani che regolano il clima e la pioggia e forniscono l’habitat per gli impollinatori, l´agricoltura collasserebbe». Cosa che renderebbe difficile vendere le macchine.

In altre parole lui dice che «abbiamo bisogno di produzione economica per sopravvivere, ma abbiamo bisogno anche di ecosistemi sani e del servizio che ci forniscono». No api, no cibo, no trasporto al negozio.

Questa logica potrebbe sembrare ovvia, ma secondo gli economisti ecologici - come Farley e la dottoressa Rachael Beddoe e i loro colleghi della Uvm institute for ecological gund economia – la corrente principale del pensiero economico ha una formula opposta. Lascia che l´economia cresca di continuo, è l´argomento che va per la maggiore, e avremo il tempo e le risorse per prenderci cura dell´ambiente; lasciate che il mercato dia un prezzo alla conservazione degli ecosistemi e si prenderà cura di essi.

Farley e Beddoe sono autori di due nuovi documenti - uno pubblicato nel Proceedings of the national academy of sciences, l´altro sulla rivista Conservation biology – che prendono di mira queste ortodossia economica.

Un mondo pieno

Vi sono abbondanti prove del fatto che «una ulteriore crescita materiale non contribuisca in maniera significativa al miglioramento della qualità della vita», scrivono Beddoe e il suo co-autore nell’edizione del 24 febbraio del Pnas4.

Tuttavia, le nostre istituzioni e industrie corrono «come un treno» afferma Beddoe, spingendo per una maggiore e maggiore produzione di materiale e di consumo. Sono guidati da un presupposto di base di visione del mondo che assume la crescita come sinonimo di progresso.

Ma un pianeta finito non può sostenere la crescita senza fine – se avete dubbi, rileggetevi la prima legge della termodinamica - e il risultato degli sforzi per inseguire la crescita – sostiene il documento - non è una maggiore felicità, ma l´accelerazione dei cambiamenti climatici, l´esaurimento del suolo, la diminuzione delle risorse energetiche, e la perdita di specie, cose che minacciano la base della civiltà.

Anche se i titoli (dei giornali) sono pieni di preoccupazione per un contratto di credit crunch, scrivono i due autori, «l´attuale crisi finanziaria impallidisce in confronto alla crisi della biofisica».

Quindi, cosa c´è da fare?

Ricordate i poveri Accadici. Studiate le foreste della Nuova Guinea. Immaginate una nuova cultura fondata sulla qualità della vita e non sulla crescita economica.

Questo è ovviamente una giusta sintesi di questo articolo, scritto a più mani da Beddoe, Farley, Gund istitut diretto da Robert Costanza, studenti in vista della Norman Myers, e altri otto membri di una corso della Uvm della primavera del 2008, intitolato «Il superamento degli ostacoli istituzionali verso la Sostenibilità».

«Ci troviamo di fronte a una crisi globale che richiede che noi cambiamo le prospettive del mondo, delle istituzioni e delle tecnologie – il nostro sociologico "regime" - in uno strada integrata», dice Beddoe. In altre parole, la minaccia più profonda non è il fallimento delle banche, ma il fallimento delle credenze - e le modalità che tali credenze formano nelle nostre istituzioni.

Nei primi anni della rivoluzione industriale il mondo era ancora in gran parte disabitato. In questo "vuoto" aveva un senso espandere il nostro consumo di risorse naturali e ignorare gli abbondanti servizi - come l´aria pulita e l’acqua - forniti da ecosistemi. Ma ora, sostiene il documento, il mondo è "pieno", e gli sforzi per aumentare la crescita materiale non sono più una strada per la felicità, ma sono diventati un blocco stradale per la qualità della vita nella maggior parte dei luoghi nel mondo. La continua crescita materiale diminuisce la capacità degli ecosistemi di fornire il supporto alla vita che produce una significativa ricchezza monetaria.

«E´ un pazzo, inadatto sistema», dice Beddoe, «ma siamo così abituati ad esso che ci sembra ragionevole».

Vecchia Akkad o Nuova Guinea come soluzione, gli autori propongono una sorta di evoluzione programmata - per scongiurare il crollo della civiltà caotica che Jared Diamond e altri storici hanno descritto essere avvenuta in passato alle società che hanno raggiunto i limiti ambientali. Come appunto gli accadici.

Nel terzo millennio a.c., gli accadici hanno costruito un potente impero da una sponda dell’Eufrate fino al Golfo Persico. Poi, circa 4180 anni fa, il clima è improvvisamente cambiato e diventato siccitoso. Gli accadici - come gli abitanti dell’isola di Pasqua, i maya, i groenlandesi e gli anasai, molte civiltà ormai scomparse - apparentemente non hanno potuto adeguarsi alle nuove condizioni e sono crollati.

«Quello che possiamo imparare dalla storia è che i declini della civiltà non sono semplicemente il risultato di un ambiente fragile», dice Beddoe «piuttosto, il declino è legato a un fragile ´regime socio-ecologico,´ o dalla risposta che una società è in grado di dare alla crisi ecologica».

E che dire oggi, dell´economia globale? «Una transizione avverrà in ogni caso e sarà quasi certamente guidata dalla crisi», concludono gli autori, ma se «queste crisi porteranno al declino», scrivono, «o ad una relativamente agevole transizione dipende dalla nostra capacità di anticipare le modifiche necessarie e sviluppare nuove istituzioni che sono più adatte».

Se i leader lungimiranti delle nazioni sviluppate risponderanno con intelligenza, gli autori sostengono che saremo in grado di "stimolare e seminare" una "riprogettazione evolutiva" della nostra attuale cultura e del suo rapporto con la natura.

«In una certa misura – scrivono gli autori del documento - siamo in grado di progettare il futuro che vogliamo con la creazione di nuove varianti dell’evoluzione culturale dell’agire».

Ciò potrebbe produrre un’economia dello "stato stazionario" che riduce il consumo, mentre aumenta l´efficienza; che si concentra su misure dirette di benessere invece che sulla ricchezza monetaria come una procuratrice di benessere; e sviluppa nuove istituzioni che proteggono i beni comuni, come l´atmosfera e gli oceani, invece di trattarli come una discarica globale.

Determinazione dei prezzi, non prezzo determinato

Purtroppo, «fino agli ultimi decenni, i responsabili delle decisioni economiche hanno ampiamente ignorato i non-market benefit dalla natura», scriveva Farley nel dicembre 2008 nell´edizione del Conservation biology, «con il risultato di aver ridotto in un modo che non ha precedenti il supporto vitale delle funzioni ecologiche», come le risorse del suolo e la pulizia dell’aria.

Tutti piccoli passi verso quel cambiamento di paradigma che Beddoe e Farley cercano di attuare con un crescente numero di economisti e scienziati, i quali stanno lavorando per applicare queste funzioni di sostegno della vita a modelli economici e al processo decisionale.

Ma l’idea che il meccanismo del prezzo nel mercato ci porterà ad una buona conservazione, probabilmente non funzionerà, sostiene Farley nel suo articolo "Il ruolo dei prezzi nella conservazione del capitale naturale critico".

La legge della domanda e dell´offerta fanno un buon lavoro stabilendo quale sia il giusto valore di un paio di scarpe. Ma non funziona così per quello che Farley chiama il "capitale naturale critico", - quelle cose della natura di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Qui, ecosistemi complessi e poco capiti - che non hanno alcun sostituto e sono soggetti a cambiamenti irreversibili – dovrebbero essere, scrive Farley, «quelli che determinano i prezzi e non, invece, avere un prezzo determinato».

«Invece di lasciare che i prezzi determinino quanto sia necessaria la conservazione, dobbiamo capire quanta conservazione è necessaria per scongiurare la catastrofe ecologica», dice Farley, «e lasciare che i prezzi si adeguino».

fonte: greenreport.it

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