giovedì 30 aprile 2009

Così il popolo delle renne vince la guerra del petrolio

Le renne trotterellano compatte come un nugolo di storni quando da un boschetto di betulle nane s'alza in volo una coppia di cigni selvatici. Il sole è tramontato da più di un'ora ma il cielo dell'artico norvegese è ancora rosa pallido. "Quest'anno la primavera è in anticipo", dice Isak Mathis Triunf, insaccato nel suo pesk, la pelliccia dei popoli del nord. Isak ha il viso cotto dal freddo, gli occhi chiarissimi.

Da ore, a cavallo di una motoslitta, sta cercando di contenere la mandria, tagliandole la strada quando questa punta nella direzione sbagliata. In poche settimane la temperatura è salita da 50 a 20 gradi sotto zero e le renne scalpitano: vorrebbero migrare verso la costa, dove i pascoli sono più abbondanti e tra un paio di mesi i venti marini le proteggeranno da zanzare grosse come polli. Ma la transumanza, così ha stabilito il parlamento lappone, comincerà soltanto a metà maggio.

Intanto, a poche centinaia di chilometri da qui, i potenti del pianeta stanno per dare inizio al "Great game" petrolifero del prossimo decennio. L'inarrestabile scioglimento dei ghiacci al Polo nord apre nuove rotte per le superpetroliere russe e presto consentirà lo sfruttamento di enormi giacimenti nascosti sotto il pack. "Ho paura", dice Isak. "Per colpa di lupi, aquile, ghiottoni e linci perdiamo tre cuccioli di renna su dieci. Se adesso ci si mettono anche i petrolieri, il nostro avvenire di allevatori sarà davvero a rischio".

Nel terzo millennio, i lapponi, o meglio, i sami, come preferiscono chiamarsi, sono entrati prepotentemente nella modernità: controllano le renne solo con le motoslitte e, anche tra i blizzard che spazzano la tundra, tengono sempre il cellulare incollato all'orecchio. D'estate guidano potenti 4x4 e per radunare le mandrie capita perfino che usino l'elicottero. Il loro passaggio da una vita semi-nomade alla cultura dell'informatica è stato immediato. "Ma sotto questa patina tecnologica c'è uno stile di vita ancestrale, senza il quale gli allevatori di renne non saprebbero fronteggiare né i capricci di animali addomesticati solo per metà né le bizze di un clima feroce", spiega il linguista Ole Henrik Magga, che è stato dal 1989 al 1997 il primo presidente del Parlamento Sami in Norvegia.

Nei secoli, per sopravvivere in un ambiente così impietoso i sami hanno sviluppato un forte senso di adattabilità. Più recentemente, da una democrazia ricca e illuminata come quella norvegese, grazie a questa virtù sono riusciti a strappare leggi con cui oggi possono far valere i loro diritti. Eppure, tra il 1850 e il 1970, la "norvegizzazione" è stata brutale. Ai sami era proibito parlare la loro lingua. I bambini venivano strappati alle famiglie. Gli adulti furono di forza assimilati alla vita occidentale. Solo pochi poterono continuare a lavorare con le renne. Quei pochi che divennero i custodi della cultura sami. "Una volta i norvegesi ci consideravano ignoranti, stupidi, accattoni", ricorda Magga.

Ma le cose sono cambiate. A giorni, sarà inaugurato a Kautokeino il nuovo edificio dell'Università Sami. Ospiterà cattedre di letteratura, pedagogia e scienze naturali, con lezioni dove le antiche pratiche della pastorizia dovranno combaciare con la biologia moderna. La struttura è costata 50 milioni di euro, tutti sborsati dal governo di Oslo. "I norvegesi ci hanno rubato i pesci nei nostri mari, gli alberi delle nostre foreste, la terra, l'oro, i diamanti. Finanziando l'università ci restituiscono una piccola parte di queste ricchezze", dice ancora il professor Magga.

Come spiega Rune Fjellheim, il Parlamento Sami che dirige a Karasjok ha recentemente bocciato un progetto di nuove attività minerarie presentato da Oslo. "Abbiamo posto una condizione allo scavo di miniere sul nostro territorio: che ci venga versata parte dei proventi ricavati dalle future estrazioni", dice Fjellheim. Lo stesso discorso vale per le piattaforme petrolifere al largo delle coste della Lapponia. Ma quando chiediamo al ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr Støre, se queste richieste gli sembrano legittime, ecco cosa risponde: "No, perché si tratta di risorse off-shore in zone economiche norvegesi. E poi i sami sono norvegesi. Rientrano quindi nel nostro sistema di ridistribuzione delle ricchezze".

Un quarto delle risorse petrolifere del pianeta si trova nelle regioni artiche. Ora, delle otto nazioni che circondano il Polo, sette sono abitate da popoli indigeni: sami, inuit, nenet russi, aleutini e via elencando. Ma, come sostiene il direttore del centro studi sami Galdu, Magne Ove Varsi, tutte le decisioni che riguardano quelle regioni vengono prese a Mosca, Oslo o Washington. "Vorremmo negoziare anche questioni che riguardano le risorse "nazionali", e non limitarci ad esprimere un parere consultivo". Per trovare un equo compromesso tra sami e imprenditori basterebbe forse attingere alle ricche casse dello stato scandinavo. Amministrando sapientemente gli introiti di gas e petrolio, la Norvegia è infatti diventata la nazione più ricca del pianeta (tra i paesi con più di un milione di abitanti). "Noi sami rappresentiamo appena l'1,5% della popolazione norvegese e i sussidi che ci versa il governo di Oslo non superano l'1 per mille del totale: per tacitare gli scontenti basterebbe aumentare queste indennità", sostiene Varsi.

Sono le undici quando finalmente comincia ad annottare. Chiediamo a Isak se si sente almeno un po' norvegese. "Direi di no. Ma con i norvegesi mantengo ottimi rapporti". Alle tre del mattino, l'allevatore risale sulla motoslitta perché le renne hanno ripreso a muoversi. Prima di uscire all'addiaccio dice: "Negli ultimi anni abbiamo vinto molte battaglie. Ma non possiamo abbassare la guardia". Il mostro è sempre dietro l'angolo.

fonte: repubblica.it

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