giovedì 26 marzo 2009

Un governo contro l´ambiente

Nonostante tutte le aperture di credito che si debbono a tutti i nuovi esecutivi, nonostante la crisi economica sia dura e costringa a provvedimenti originali per “non mettere le mani nelle tasche degli italiani”, nonostante tutte le attenuanti generiche si vogliano considerare, questo governo rischia di passare alle cronache come il più dannoso di sempre per l’ambiente del nostro paese. E’ vero, ci sono stati i governi democristiani responsabili del sacco delle città d’arte d’Italia (Roma in particolare), quelli dei grandi insediamenti industriali in aree di pregio, i governi a partecipazione socialista responsabili di corruzioni che hanno avuto come vittima l’ambiente e perfino le amministrazioni di centro-sinistra che hanno avuto grosse responsabilità in piani regolatori faraonici o nel non arrestare l’abusivismo. Ma quello che sta succedendo con questa maggioranza sembra davvero mostrare pochi confronti con il passato. Consumo di territorio, grandi opere inutili, energia nucleare, parchi e aree protette e nuova legislazione sulla caccia sono i parametri più preoccupanti.

Consumo del territorio
Il piano casa del governo è, sostanzialmente, un condono edilizio mascherato da provvedimento a favore dell’economia. Legare i movimenti economici all’edilizia è un vizio tutto italiano che non ha nessuna ragione di esistere in un paese già così gravemente costruito come il nostro. Ogni secondo che passa in Italia un metro quadrato di territorio viene ricoperto di cemento per un totale di circa 150.000 ettari di cemento e asfalto all’anno. Tutto questo in un paese con una densità di popolazione elevata che non tiene conto del fatto che solo una parte della nazione può effettivamente essere abitata (dobbiamo scartare per esempio le zone di alta montagna e le aree protette).

Sono centinaia di migliaia le abitazioni costruite subito dopo l’annuncio degli ultimi condoni e altrettanti sarebbero gli interventi dopo questo. In un paese a crescita zero (e in calo demografico da vent’anni) è singolare l’interesse che si riscontra per “la camera per il figlio in più”: secondo lo stesso criterio si dovrebbere eliminare un vano ogni volta che muore qualcuno, a meno di non voler assomigliare alle devastanti costruzioni degli Amish statunitensi, che crescono per i figli, ma almeno in un territorio sconfinato.

Si tratta di un’operazione al buio, con il rischio di un processo edificatorio che porta a una nuova occupazione di suoli liberi, sebbene nessuno conosca ancora quanti siano da un lato le cubature residuali dei vari piani regolatori e dall´altro quante siano le cubature abusive ancora soggette a centinaia di migliaia di domande di condono delle quali alcune risalenti ancora al 1985. Si tratta poi di una mina vagante per i piani paesaggistici regionali, attualmente ancora in corso in tutte le regioni italiane, capace di stravolgere ulteriormente i già faticosi processi di pianificazione territoriale; inoltre le stesse aree Parco rischiano di essere travolte dopo anni in cui gli enti hanno rappresentato l´unico argine all´espansione edilizia indiscriminata in zone spesso tutelate anche da vincoli internazionali.

Così facendo l´infinita polverizzazione edificatoria che ha travolto coste e campagne, vallate e borghi storici rischia di aumentare. In Lombardia la superficie urbanizzata ha raggiunto il 10% del territorio negli ultimi 15 anni. Non vanno molto meglio regioni come il Veneto e Liguria dove la superficie impermeabilizzata da cemento e asfalto è sempre più alta. Secondo i censimenti agricoli del 1950 e del 2005 mancano oggi all´appello più di 3,5 milioni di ettari di superficie libera da infrastrutture e costruzioni: un territorio più grande dell´ Abruzzo e del Lazio messi insieme.

Solo nel Molise, una delle regioni più piccole e demograficamente stabili, l´urbanizzazione è cresciuta di oltre il 500% negli ultimi 50 anni, dai 2.300 ettari del 1956 agli oltre 12.000 del 2006. Gli effetti negativi sono molto chiari: scriteriata impermealizzazione dei suoli (già molto consistente); modificazioni climatiche localizzate; distruzione e frammentazione degli habitat di specie di importanza planetaria; alterazione degli assetti idraulici superficiali e sotterranei; riduzione dell´estensione e della capacità produttiva agricola.

Soltanto negli ultimi 15 anni circa tre milioni di ettari, un tempo agricoli, sono stati asfaltati e/o cementificati. Questo consumo di suolo sovente si è trasformato in puro spreco, con decine di migliaia di capannoni vuoti e 25 milioni di vani sfitti: suolo sottratto all´agricoltura, terreno che ha cessato di produrre vera ricchezza. La sua cementificazione riscalda il pianeta, pone problemi crescenti al rifornimento delle falde idriche e non reca più alcun beneficio, né sull´occupazione né sulla qualità della vita dei cittadini.

Questa crescita senza limiti considera il territorio una risorsa inesauribile, in un meccanismo deleterio che permette la svendita di un patrimonio collettivo ed esauribile come il suolo, per finanziare i servizi pubblici ai cittadini (monetizzazione del territorio). Di più: in molti casi le nuove costruzioni hanno impegnato aree che dovevano essere lasciate libere perché a rischio naturale elevato, come è il caso delle abitazioni abusive costruite alle pendici del Vesuvio, nella zona rossa di Sarno, lungo le coste tirreniche a rischio tsunami e ovunque ci siano vecchie frane o corsi fluviali che possono esondare.

Ma l’Italia di oggi non è sensibile ai problemi ambientali, meno che meno quando comportano regole e vincoli, e quello che era il giardino d’Europa sta per diventarne il cortile. L’esempio della Sardegna è illuminante: il programma di governo di Renato Soru è stato il primo a mettere l’ambiente al centro dell’azione di governo: da un lato allo scopo di respingere gli attacchi della speculazione edilizia sulle coste sarde (per esempio contro il paventato master plan Costa Smeralda 2), e più in generale, contro l’alluvione di cemento che era stata già tentata dalle precedenti giunte. Dall’altro per la conservazione e la tutela del paesaggio primordiale sardo, attraverso un piano paesistico che non permette, fra l’altro, costruzioni nuove neanche in campagna se non si hanno più di 5 ettari a disposizione: come a dire che si tende a conservare valori e paesaggi atavici nella loro destinazione originaria.

Peraltro proprio su questo punto la giunta Soru è caduta a causa delle perplessità di una parte del centro sinistra locale che, ancora una volta, si è trovato a combattere una battaglia di retroguardia rispetto alle visioni ambientali del presidente imprenditore (come questa logica tafazziana abbia preso piede anche in Sardegna, dove la giunta ha sperperato la larga popolarità di cui godeva e aveva un programma ambientale di primissimo piano, resta un mistero legato allo scarso calibro di alcuni politici locali).

I sardi sapevano bene cosa, invece, proponeva l’altra parte politica: prima di tutto, il ritorno dell’assalto alle coste, tentato attraverso un referendum per abolire la legge salvacoste disertato dalla popolazione (solo il 20% dei votanti), e costato 9 milioni di euro che avrebbero potuto trovare una migliore destinazione. Nel corso della sua gestione Soru ha difeso le coste non permettendo di costruire a meno di 2000 metri dal mare e tutelato la memoria della Sardegna primordiale. Seppellita dai dati Istat, che certificano il turismo nell’isola essere in aumento, l’accusa che quelle leggi deprimessero l’economia sarda, Soru è stato comunque sconfitto e orizzonti foschi si presentano per l’ambiente isolano. E non solo per la Sardegna.

Nonostante tutte le aperture di credito che si debbono a tutti i nuovi esecutivi, nonostante la crisi economica sia dura e costringa a provvedimenti originali per “non mettere le mani nelle tasche degli italiani”, nonostante tutte le attenuanti generiche si vogliano considerare, questo governo rischia di passare alle cronache come il più dannoso di sempre per l’ambiente del nostro paese. E’ vero, ci sono stati i governi democristiani responsabili del sacco delle città d’arte d’Italia (Roma in particolare), quelli dei grandi insediamenti industriali in aree di pregio, i governi a partecipazione socialista responsabili di corruzioni che hanno avuto come vittima l’ambiente e perfino le amministrazioni di centro-sinistra che hanno avuto grosse responsabilità in piani regolatori faraonici o nel non arrestare l’abusivismo. Ma quello che sta succedendo con questa maggioranza sembra davvero mostrare pochi confronti con il passato. Consumo di territorio, grandi opere inutili, energia nucleare, parchi e aree protette e nuova legislazione sulla caccia sono i parametri più preoccupanti.

Questo governo, attraverso la decisione assunta in CIPE, riuscirebbe a garantire, per il programma di grandi opere, risorse pubbliche che sono in realtà solo poco più di un quarto (4,9 miliardi su 16,6) del totale messo in conto per le infrastrutture di trasporto. E ha deciso di immobilizzare, in una situazione economico-finanziaria di crisi, la metà delle risorse pubbliche realmente disponibili (2,3 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi per il ponte sullo stretto di Messina e 1 miliardo per il terzo valico dei Giovi) per grandi opere che non sono sorrette da piani economico-finanziari credibili e che avrebbero ancora bisogno, per essere realizzate, di ulteriori, ingenti fondi pubblici, visto che la copertura attuale è del tutto insufficiente. Le due infrastrutture costano cinque volte di più di quanto ad oggi stanziato: oltre 11 miliardi di euro, 6100 milioni per il ponte e 5060 milioni per il terzo valico.

Ma è utile il Ponte sullo stretto di Messina ? In un periodo storico in cui le infrastrutture dovrebbero servire l’assetto e lo sviluppo--non determinarli-- la soluzione del ponte sarebbe accettabile solo con crescite del PIL attorno a 3,8% nel prossimo decennio, mentre il PIL italiano crescerà, teoricamente, dello 0,5% (in realtà siamo a indici negativi o prossimi allo zero). La teoria del legame infrastrutture - sviluppo deve essere abbandonata, sia perché l’utilità delle opere pubbliche dipende dalla qualità e dall’uso efficiente, sia perché le infrastrutture trovano una loro vera ragione nel contesto economico regionale. Infatti ci sono aree che posseggono infrastrutture consistenti che permangono nel sottosviluppo: per esempio l’area di Corigliano Calabro, che non ha evidentemente beneficiato della presenza del mastodontico porto di Sibari. D’altro canto ci sono regioni scarsamente infrastrutturate che, invece, mostrano indici di sviluppo e dinamismo economico assai elevati, come l’intero nord-est italiano. Oltre un livello minimo le infrastrutture tendono a seguire lo sviluppo piuttosto che anticiparlo: è la domanda che crea l’offerta e non viceversa.

Ci si potrebbe poi aspettare che il traffico smaltito dal ponte sia in crescita esponenziale, tanto da giustificare un’opera di tali costi e impatti. E, invece si scopre che dal 1990 in poi il numero dei passaggi attraverso lo stretto è in caduta libera: passeggeri - 10%; mezzi pesanti - 3,0%, autovetture - 2,0%; in corrispondenza, inoltre, di una caduta dell’utilizzazione dei mezzi (scesa al 55%, cioè partenza di più navi vuote). Anche per questa ragione gli economisti sostengono che il ponte non sarà mai in grado di remunerare il capitale investito a causa delle ridotte dimensioni degli scambi commerciali attivabili. Oggi sul ponte potrebbero transitare 10.000 veicoli al giorno, siamo sicuri che domani ne transiterebbero 100.000 ? Su quali basi qualcuno prevede un incremento del 250% delle merci e del 170% dei passeggeri ? E non sarebbe da folli --nel caso di effettivi incrementi di quel genere-- continuare a mandare i TIR da Genova a Palermo sull’autostrada invece che via mare ?

Questo è un problema che riguarda tutte le grandi opere: il Golden Gate Bridge su cui transitano 115.000 veicoli al giorno (42 milioni di attraversamenti annuali) perde 51 milioni di dollari all’anno nonostante il pedaggio. In pratica chi pagherà i 100 milioni di euro all’anno di manutenzione del ponte sullo stretto quando neanche il ponte più famoso del mondo (di cui l’effetto monumento è sicuro) copre le sue ? Il tunnel sotto la Manica (Eurotunnel) presenta a tutt’oggi gravissime perdite economiche e continua a non essere preferito dagli utenti per via dei costi troppo più elevati rispetto ai mezzi alternativi di superficie; inoltre ha subito già un numero considerevole di incendi con interruzioni, paura, panico. Il ponte Oestersund fra Svezia e Danimarca ha mostrato un volume di traffico inferiore di un terzo rispetto alle previsioni, per cui registra considerevoli perdite economiche che, però, vengono appianate da interventi statali, pur essendo il ponte finanziato in regime di project financing: una specie di indebitamento occulto (e se accade in Scandinavia …).

Poco si comprende come dal ponte si incentiverebbe l’integrazione con l’Europa (che infatti non ce lo chiede): non è che la Gran Bretagna sia meglio integrata dal tunnel sotto la Manica, né si deve necessariamente raggiungere l’Africa via Sicilia. E’ vero la Sicilia è mal collegata e forse sottoutilizza le sue risorse --pur essendo tremendamente congestionata dal traffico-- a causa di una rete di trasporti non efficiente, ma questo cosa c’entra con il Ponte ? In realtà il Ponte non elimina una strozzatura, la crea, perché costringe tutti a passare di là, oltretutto incrementando il traffico su gomma. Nello scenario più ottimistico non si raggiungerà un terzo della capacità stradale del ponte da qui a dieci anni: ma se il ponte può sopportare 100.000 autoveicoli al giorno contro i 10.000 della massima previsione attuale, siamo nel tipico caso in cui l’infrastruttura non risulta utilizzata a pieno e dunque un qualsiasi pedaggio diventa, in pratica, una perdita di benessere collettivo.

Va infine considerato che un siciliano esce dalla sua isola, in media, una sola volta all’anno (e non perché non ci sia il ponte). E la quota che passa attraverso lo stretto è in netto e costante calo: dal 55 al 45%. Gli spostamenti fra le province di Reggio e Messina sono 15.000 di cui 12.000 senz’auto (al giorno): quelle persone continueranno senza meno a scegliere il traghetto e sarà una fortuna, almeno non incrementeranno il traffico su gomma e l’inquinamento. Mancheranno cioè proprio i passeggeri più regolari --quelli a cui il ponte avrebbe dovuto fare un gran favore-- che avrebbero gli accessi alle rampe del ponte talmente lontani dai rispettivi centri abitati da dover preferire comunque e sempre i traghetti o gli aliscafi. Il ponte non è sicuramente un’alternativa valida per il traffico locale e, più in generale, raccoglie consensi in ragione inversa rispetto alla lontananza da esso: più si è vicini meno lo si comprende e giustifica. Non si tratta di difendere una cartolina, ma di salvaguardare la percezione del territorio in cui si vive e si opera, senza affidarsi a un’opera taumaturgica tutta esterna al contesto, imposta dall’alto e poco giustificata localmente.

Il WWF Italia, infine, ricorda come non sia chiaro ancora oggi chi mai metterà gli altri 4,4 miliardi di euro (visto che costa 6,1 miliardi di euro ed oggi il governo ne rende disponibili 1,3) che servono per costruirlo, visto che lo Stato riesce oggi a destinare 800 milioni di euro in meno di quanto venne destinato quattro anni fa con la ricapitalizzazione della Stretto di Messina SpA (1,3 miliardi di euro oggi, contro i 2,5 miliardi di euro del 2003). Non è poi chiaro come si pensi di affrontare la ridefinizione dei rapporti con il general contractor capeggiato da Impregilo, visto che il costo dell’opera è di 2,2 miliardi di euro in più di quello con cui è stata vinta la gara (6,1 miliardi rispetto ai 3,9 miliardi di euro del maxiribasso presentato da Impregilo). Infine non risulta che siano stati superati tutti gli ostacoli tecnici di realizzazione di un ponte sospeso ad unica campata di 3,3 km (nell’area a maggior rischio sismico del Mediterraneo) e di gestione di un’opera, concepita per 100.000 veicoli al giorno quando stime ufficiali al 2032 prevedono solo 18.500 v/g.

Il WWF Italia, inoltre, contesta che il Governo decida di destinare al Ponte sullo Stretto un terzo (1,3 miliardi di euro su 3,7) delle risorse FAS (Fondi per le Aree Sottoutilizzate) assegnate alle infrastrutture del Mezzogiorno proprio quando Calabria e la Sicilia sono in emergenza idrogeologica. Solo in Calabria la Regione ha calcolato che per intervenire sui danni causati dal maltempo sarebbero necessari 1,4 miliardi di euro, mentre il Governo ha assicurato aiuti solo per 55 milioni. Calabria e Sicilia restano poi isolate, sostanzialmente, dal resto del Paese per i collegamenti via terra e via mare: la A3 Salerno-Reggio Calabria è un campo minato per il dissesto del territorio e per i numerosi cantieri ancora aperti. Inoltre si accumulano ritardi nella realizzazione dei maxilotti, causati tra l´altro per i movimenti franosi, della SS106 ionica, l´unica via alternativa di collegamento per il traffico stradale a lunga percorrenza. Infine i treni provenienti da nord lungo la linea tirrenica per almeno tre mesi saranno costretti a fermarsi a Lamezia Terme a causa di una frana profonda che minaccia la linea tra le stazioni di Mileto e Vibo-Pizzo, creando enormi disagi per chi si sposta anche in ambito locale e da e per la Sicilia. Nel frattempo RFI (Rete Ferroviaria Italiane) ha quasi dimezzato le corse dei traghetti che fanno servizio nello Stretto di Messina.

Il Governo, secondo gli ambientalisti farebbe bene, in alternativa, a investire, oltre che sulla A3 Salerno-Reggio Calabria, per: concludere al più presto i lavori sulla linea ferroviaria tirrenica interrotta tra le stazioni di Mileto e Vibo-Pizzo; ricollegare al più presto Reggio Calabria al resto d’Italia; potenziare le linee ferroviarie che collegano Catania, Messina e Palermo; chiudere finalmente i cantieri della SS106 Ionica; rifinanziare il riassetto del territorio (solo in Calabria la Regione ha calcolato che sarebbero necessari 1,4 miliardi di euro). In definitiva sarebbe molto meglio, secondo quanto richiesto anche dall’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili), investire in interventi puntuali alternativi e in opere medio-piccole veramente utili e realizzabili in tempi certi che, come ammette anche la stessa associazione dei costruttori, rappresentano i veri progetti anticrisi.

Invece di scegliere decisamente la strada delle energie rinnovabili, della maggior efficienza e del risparmio il governo prende quella vecchia e senza sbocchi del nucleare. Come se entrando in un negozio volessimo acquistare una radio a valvole o volessimo fare il pieno con benzina arricchita in piombo tetraetile. L’uranio è un combustibile fossile (come gli idrocarburi e il carbone) e si esaurirà in un tempo non lunghissimo (meno di mezzo secolo), suscettibile di essere considerevolmente ridotto, come è intuibile, se ne aumenterà l’utilizzo.

Inoltre produce scorie radioattive che rimangono potenzialmente pericolose per migliaia di anni: come si fa a paragonarlo al sole o al vento? Questa strada non avrà alcun risultato nella lotta al cambiamento climatico e aumenterà solo la dipendenza del Paese dai combustibili fossili (seppure nucleari) di cui, come si dovrebbe sapere, non possediamo alcun giacimento.

Impiantare una centrale nucleare richiede oggi circa 4 miliardi di euro, e il costo vero del kWh ottenuto per questa via potrà essere calcolato solo quando il primo rifiuto della centrale più vecchia sarà diventato inattivo, cioè fra oltre diecimila anni. Inoltre, con l’emergenza clima alle porte e gli accordi internazionali che impongono obblighi e tempi, non sembra una risoluzione sensata quella di affidarsi a reattori che saranno realizzati non prima di dieci anni.

La ricerca per l´energia nucleare ha già bruciato il 90% delle spese destinate a quella su fonti energetiche alternative ai combustibili fossili. Non più dipendenti solo dal punto di vista delle fonti energetiche, ma anche da quello tecnologico: questo il risultato dell´accordo italo francese sul nucleare annunciato oggi.

A pagare, in tutti i sensi, saranno i cittadini-contribuenti, che vedranno lo Stato sostenere coi loro soldi una scelta che li penalizzerà sotto il profilo della dipendenza energetica e tecnologica e non consentirà al nostro Paese, ancora per decenni, di attrezzarsi davvero per la lotta contro la CO2 e i cambiamenti del clima.

L´Italia, in sostanza, dipenderà dalla Francia anche dal punto di vista tecnologico, e questo nonostante la precedente fallimentare esperienza del reattore Superphoenix, alla fine chiuso per manifesta inefficienza. Il progetto EPR in Finlandia già mostra enormi problemi dal punto di vista della realizzazione e della sicurezza.

Il nucleare in Italia ha problemi enormi di localizzazione, essendo un territorio fortemente sismico, pervaso dal dissesto idrogeologico e con spazi fluviali ancor più ridotti e prosciugati per buona parte dell´anno (fenomeno che aumenterà con l´acutizzarsi degli effetti dei cambiamenti climatici). Il nucleare offre un modestissimo contributo al fabbisogno energetico mondiale. Si parla di circa 6,5%, ma questo dato è già sovradimensionato. Il reale contributo del nucleare è addirittura inferiore a quello dell´ idroelettrico (secondo la IEA nel 2006 la produzione idroelettrica ammontava a 3.121 TWh contro i 2.793 TWh del nucleare).

Secondo l’agenzia Moody’s, la realizzazione di nuovi impianti nucleari avrebbe costi molto superiori ai 7.000 dollari a kW installato. Come se non bastasse Moody’s afferma che i costi del kWh nucleare saranno destinati a crescere con un ritmo del 7% annuo e questo comporterebbe un raddoppio del costo del kWh nell’arco del prossimo decennio. Così le bollette degli italiani aumenteranno, senza peraltro migliorare la sicurezza energetica del nostro Paese che continuerà a dipendere dai combustibili fossili per i trasporti, il riscaldamento degli edifici e tutto il resto. Il nucleare, infatti, serve solo, e a caro prezzo, a produrre energia elettrica ma nel nostro paese (come la maggior parte dei paesi) l’energia elettrica è meno di un quarto dell’energia complessivamente impiegata.

Il caso della centrale finlandese di Olkiluoto. Questo caso sta diventando paradigmatico della dubbia sostenibilità economica degli investimenti nucleari, a causa di ritardi nella costruzione, aumento dei costi e utilizzo inefficace dei sussidi pubblici. Essendo il primo reattore costruito nel mercato liberalizzato europeo dell´energia, nel 2005 quando la costruzione iniziò fu descritto come una prova che l´industria nucleare può competere in questo nuovo mercato in seguito ai miglioramenti tecnologici avvenuti.

Per ridurre i rischi per l´acquirente - l´utility finlandese TVO - la società franco-tedesca Areva ha siglato un accordo chiavi in mano a prezzo fisso per la nuova centrale, a prescindere dall´ammontare finale delle spese effettive per il costruttore. Inoltre, l´accordo prevede una multa di 0,2% del costo per ogni settimana di ritardo rispetto alla consegna alla prima criticità prevista entro 48 mesi dalla posa della prima pietra. Le condizioni favorevoli previste dall´accordo avevano l´obiettivo di dimostrare la competitività dell´"affare" rispetto alle altre opzioni sul mercato.

Già nel primo anno si sono verificati una serie di problemi tecnici e ritardi nella costruzione, resi poi pubblici dall´ente regolatore dell´energia della Finlandia. Dopo 16 mesi di lavori il progetto aveva accumulato un ritardo di ben 18 mesi, con un aumento dei costi stimato in circa 700 milioni di Euro. Va aggiunto che già nel 2006 in seguito agli anticipi effettuati Areva ha registrato una perdita di 300 milioni di Euro. Va notato che la Bayerische Landesbank che ha guidato un syndicated loan di 1,95 miliardi di Euro per il progetto - che copre il 60 per cento dei costi - ha applicato tassi estremamente vantaggiosi del 2,6 %. Inoltre le agenzie di credito all´esportazione Coface e SEK hanno garantito operazioni di Areva per 720 milioni di Euro. Ciononostante il progetto potrebbe causare una forte perdita per Areva ed in prospettiva anche per l´utility finlandese.

La DG Competition della Commissione Europea ha anche indagato sulle particolari condizioni concesse da queste agenzie ad Areva e sulla possibile violazione dei principi di concorrenza nel mercato europeo. E´ chiaro quindi che il progetto Olkiluoto emerge come un sonoro fallimento che mostra la palese incapacità dell´industria nucleare di competere in mercato liberalizzato dell´energia quale è quello europeo oggi, anche se si tratta di progetti in via di realizzazione in condizioni ottimali e in paesi molto avanzati sia dal punto di vista economico che in materia di regolamentazioni e sicurezza.

E non parliamo qui del problema irrisolto delle scorie e degli incidenti possibili.

fonte: greenreport.it

1 commento:

Anonimo ha detto...

posso solo dire .che questi mostri rovineranno la nostra isola. il mio presidente haveva fato tanto x la sardega. e quel buffalo di capellacci manovrato da quel mostro con la faccia plastificata fà di tutto x rovinarci l ambiente. w il mio amato presidente soru

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