giovedì 22 novembre 2007

Gabon: diga cinese distruggerà la foresta

«Con i piroghieri sono sceso fino alle cascate, trovandomi in paradiso: elefanti e scimpanzé a pochi metri, profumi e silenzi mai sentiti». Giuseppe Vassallo, nato a Milano nel '36, imprenditore e naturalista, raccontava così quel suo primo viaggio lungo il fiume Ivindo, tra le cascate Kongou e Mingoulì, nel nord-est del Gabon. Era il '94 e lui, console onorario del governo di Libreville in Italia, aveva scoperto che quei meravigliosi salti d'acqua nel cuore della foresta tropicale non li conoscevano neanche gli scienziati gabonesi. Lì intorno c'erano solo pigmei.


Oggi le terre dei pigmei, anche grazie a quell'italiano visionario, sono area protetta. Eppure da settimane una strada si fa largo fra gli alberi, taglia il parco nazionale, punta alle più belle cascate dell'Africa centrale. La stanno aprendo i cinesi della Cmec (China National Machinary Equipment Import Export Corporation) che ha ricevuto da Libreville la concessione a sfruttare per 25 anni la miniera di ferro di Bélinga, non lontano dall'area protetta. L'intesa prevede anche la costruzione delle infrastrutture necessarie: una ferrovia, un porto, una centrale idroelettrica. La centrale, è stato deciso, si farà con una diga sulla cascata di Kongou. Nel cuore di uno dei 13 parchi nazionali creati dal Gabon nel 2002, senza nessuna valutazione d'impatto ambientale, scavalcando il ministero delle Foreste.


Eppure cinque anni fa, annunciando la sua svolta verde, El Hadj Omar Bongo Ondimba, presidente del Gabon, diceva: «Il turismo aiuterà a proteggere l'ecosistema e creerà posti di lavoro». Parole che gli valsero l'applauso della comunità internazionale, un invito alla Casa Bianca e interviste sul National Geographic.
Altri tempi. Pochi mesi prima il ministero delle Foreste del Gabon aveva dato in concessione a una fondazione di diritto gabonese costituita da italiani, la Figet, la gestione di 120 chilometri quadrati di foresta attorno alla cascata Kongou. Sottraendoli, dopo anni di discussioni, alla compagnia forestale Rougier, che era invece proprietaria di concessioni di taglio. Da allora italiani e gabonesi hanno dato vita a progetti di ecoturismo, convertendo ex bracconieri in guide per i visitatori, costruendo una scuola, e collaborando con il villaggio di Loa-Loa per realizzare un campo che ospita i turisti ai piedi delle cascate. «Ha funzionato, e noi non ci pieghiamo: spero ancora di bloccare tutto» dice Gustavo Gandini, professore di Genetica zootecnica all'università di veterinaria di Milano e direttore della Figet, che alla morte di Vassallo, nel 2000, ne ha raccolto l'eredità.

Dall'Africa, però, arrivano brutte notizie. «I cinesi sono a pochi chilometri dalla nostra cascata. Anche se uno studio francese del '66 dimostra che è un altro, quello di Tsengué Lélédi, il salto d'acqua più adatto a una diga» dice Marc Onà Essangui, che a Libreville dirige l'Ong «Brainforest» e il cartello di associazioni che si battono perché sia valutata una sede alternativa per il mega progetto. È con loro che il presidente- patriarca Bongo, in carica dal '67 è il più longevo capo di Stato africano, si è arrabbiato a settembre. «Dicano quello che vogliono: il dossier Bélinga non si ferma». Bongo sostiene che gli ambientalisti, ispirati dall'Occidente, vogliano impedire lo sviluppo del Paese. Per lui lo sfruttamento della miniera di ferro di Bélinga — pare nasconda un miliardo di tonnellate di metallo e se fosse vero sarebbe il giacimento più ricco al mondo — è l'«operazione del secolo». Resta da capire per chi. L'accordo fra Gabon e cinesi, per quel che se ne sa, prevede la creazione di una società per lo sfruttamento della miniera che sarebbe controllata all'85% dalla Cmec, forte dell'impegno assunto da due istituti di credito cinesi di coprire tutte le spese, e cioè investire 2,2 miliardi di euro, e dell'assicurazione di Pechino che la Cina comprerà tutto il ferro estratto. Il Gabon, che non chiederà alla Cmec il pagamento di imposte e si è assunto le responsabilità in caso di incidenti o danni ambientali, dovrebbe guadagnarci in infrastrutture e posti di lavoro. Un po' poco, anche per la stampa locale. Due mesi fa l'Echos du Nord attaccava: «Nemmeno le compagnie petrolifere sono trattate così: pagano tasse e concessioni, e dividono la produzione. In nome di cosa vendiamo la nostra immagine di Paese attento all'ambiente?».

fonte: corriere.it

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