mercoledì 14 novembre 2007

«Non fai un c...», condannato il capoufficio

Un capo che si rivolge con stizza al dipendente usando l'espressione «non fai un cacchio» può essere condannato per ingiuria. Lo rileva la Cassazione, confermando la condanna inflitta dalla Corte d'Appello di Roma ad un superiore che si era rivolto ad un lavoratore dicendogli «mò m'hai rotto li c..., io voglio sapè te che c.... ci stai a fà qua dentro, che nun fai un cacchio ed altro».

«OFFESO? MA NON E' CAPUCCETTO ROSSO» - L'imputato si era rivolto alla Suprema Corte contro il verdetto dei giudizi del merito, deducendo che «in considerazione del rapporto gerarchico esistente» tra lui e il dipendente, «della circostanza che il fatto avvenne durante l'orario di lavoro e che la persona offesa si era intromessa in colloquio di lavoro tra altre persone, peraltro in ambiente di lavoro ricco di tensione, quale quello della movimentazione di valori, la frase pronunciata non aveva valore di ingiuria, trattandosi di espressione volgare e colorita utilizzata come forte critica nei confronti di un comportamento stigmatizzabile del sottoposto». La frase, secondo l'imputato, stava a significare che il dipendente «si trovava fuori luogo rispetto al suo naturale posto di lavoro» e «alla luce dell'evoluzione dei costumi e del particolare luogo di lavoro ove era dato udire ogni tipo di sconcezza non era condivisibile l'opinione che il dipendente, quasi rivestisse la figura di Cappuccetto rosso, si fosse sentito offeso nell'onore».

«FRASI CON DISPREZZO» - Per la quinta sezione penale della Cassazione, il ricorso è inammissibile: in relazione al reato di ingiuria, osservano gli alti giudici, «affinchè una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica - si legge nella sentenza n.42064 - ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell'insulto a quest'ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell'errore, sottolineino l'eventuale trasgressione realizzata». Se invece le frasi usate «sia pure attraverso la censura di un comportamento - ribadiscono i magistrati - integrino disprezzo per l'autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità ingiuriosa».

INGIURIE E STIZZA - Nel caso di specie, è la conclusione della Suprema Corte, i giudici di merito «con apprezzamento in fatto adeguatamente motivato e come tale incensurabile in questa sede, ha accertato che la condotta ingiuriosa non era finalizzata a stigmatizzare una specifica condotta censurabile del dipendente nell'esercizio delle sue mansioni, bensì era motivata dalla "stizza" per un comportamento genericamente opportuno» del dipendente. Per questo «la concreta fattispecie esula dalle ipotesi di critica legittima».

fonte: corriere.it

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