venerdì 29 maggio 2009

Italia: no politica industriale, no riconversione ecologica dell´economia

I problemi dell’industria italiana, seppur resi più forti dalla recessione economica che ha colpito praticamente tutti i paesi industrializzati del pianeta, hanno origini più lontane. Il declino dell’Italia, parola che non dovrebbe essere inclusa nel vocabolario secondo i sostenitori dell’ottimismo come ricetta di ripresa, di cui il nostro premier è il leader, è iniziato molto prima che i venti della catastrofe economica americana spazzassero anche le economie europee e quella nostrana.

Lo descrive in maniera molto dettagliata l’ultimo rapporto della Banca D’Italia sulle tendenze del sistema produttivo, che sostiene: «Nell’ultimo decennio l’economia italiana ha segnato il passo, sia in prospettiva storica sia rispetto ai principali paesi europei. È opinione diffusa che questo andamento rifletta problemi strutturali irrisolti, resi più pressanti dai notevoli cambiamenti che hanno caratterizzato l’economia mondiale».

Quindi ci sono elementi strutturali irrisolti alla base del declino dell’Italia, ovvero la perdita del dinamismo socio-economico e di capacità d’innovazione, da cui i riflessi negativi in termini di competizione nello scenario ormai globalizzato e di investimenti in uno sviluppo più duraturo (che ha in sé anche il significato di più sostenibile). Che vengono rappresentati in scarsa capacità d’innovazione tecnologica, scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, scarsa tendenza a creare reti tra università e imprese, e la generale e diffusa dimensione di piccola impresa.

«Più piccola è la dimensione, più difficoltoso è sostenere gli elevati costi fissi connessi con l’attività di ricerca e sviluppo, l’innovazione, l’accesso ai mercati esteri» si legge nel rapporto di Banca Italia. A questo va aggiunto la mancanza di un ruolo importante rivestito dall’intervento pubblico realizzato con le politiche industriali.

«Scelte fondamentali – quanto innovare, se e come andare all’estero, quale struttura proprietaria – sono di stretta pertinenza delle imprese, ma riflettono largamente le politiche pubbliche» si legge ancora nel rapporto. Mancanza di scelte che - come sottolinea Carlo Castellano oggi su Repubblica, leggendo i dati del Rapporto Rosselli sulle priorità nazionali della ricerca industriale per il settore “Vita”, hanno ad esempio portato nell’industria della salute alla situazione «paradossale» che «per le nuove imprese e per gli spin-off, lo Stato italiano è nei fatti, per il 90% l’azionista della ricerca biomedica di base ma non è in grado di capitalizzare questa risorsa, così come avviene negli altri paesi, facilitando il decollo e la crescita di queste nuove aziende».

Che fa il paio con la fotografia della ricerca accademica e industriale italiana emersa dal primo rapporto sull’avanzamento del programma quadro, che secondo il commissario europeo per la ricerca, Janez Potocnik ha «un grande potenziale, ma inspiegabilmente inespresso». Una situazione che non promette futuri rosei per il nostro paese, al di là di quando e come avverrà la ripresa dalla recessione.

Ma alcune delle caratteristiche che hanno portato ad indebolire l’economia italiana, potrebbero essere la chiave di lettura di come uscire dal guado, sempre che la politica industriale voglia indirizzare questo cammino.

Nel rapporto Banca Italia si legge ad esempio che, nonostante gli investimenti in R&S sia l’indicatore di capacità innovativa più utilizzato, anche perché facilmente misurabile, «tuttavia, la spesa in R&S non rappresenta tutta l’attività innovativa svolta da un’impresa, che può invece spesso seguire altri canali, di carattere più informale, come ad esempio le collaborazioni scientifiche con altri soggetti, la possibilità di beneficiare di spillovers o di utilizzare procedure di gestione della conoscenza».

Una caratteristica piuttosto diffusa nelle nostre imprese tanto che «le statistiche indicano un ritardo delle imprese italiane in termini sia di innovazione sia di adozione di nuove tecnologie. Ciò riflette la specializzazione settoriale sbilanciata verso produzioni tradizionali a basso contenuto tecnologico e l’elevata frammentazione del tessuto produttivo. Tuttavia, la quota di imprese che svolge attività innovativa non si discosta significativamente da quella dei principali paesi europei, seppure con un investimento in R&S nettamente inferiore, configurando il paradosso di un Paese che fa innovazione senza ricerca».

Un paradosso che si riscontra nelle iniziative che pur si riscontrano nelle circa 5.000 imprese medio grandi del cosiddetto Quarto Capitalismo, in cui si ritrovano nicchie d’eccellenza, come descrive la ricerca sulle geografie del Made in Italy realizzata recentemente da Symbola, in settori altamente tecnologici e sempre più inseriti nel solco di quella che viene definita la green economy. Certamente minori sono le eccellenze nei grandi gruppi industriali, ed anche in questo caso le migliori innovazioni si ritrovano laddove si è investito nell’industria ecologica: il caso Novamont ne è un esempio.

Gocce nell’oceano. Nuclei che avrebbero bisogno di politiche a sostegno per poter creare attorno a sé orbite sempre più grandi. Mentre invece anche i tentativi messi in piedi per stimolare innovazione di processo, efficienza nell’uso dell’energia e delle materie prime, creazione di reti tra piccole imprese fra di sé e tra queste e il mondo universitario (proprio per superare quel paradosso che si fa innovazione senza ricerca) progettato con Industria 2015, sta languendo e con le modifiche volute dall’attuale ministero dello Sviluppo sulla commissione che esamina i progetti, rischia di privilegiare grandi aziende anziché piccole, che potrebbero stralciare più facilmente dai propri bilanci risorse da destinare a R&S.

Ma appunto, il maggiore tra i problemi strutturali dell’industria di questo paese, è l’assenza di una politica industriale, e di interventi, che come dice Castellano, «nell’ultimo decennio appaiono modesti, dispersivi e discontinui» e che non hanno mai messo a tema la necessità di riconvertire in chiave ecologica produzioni e consumi, rivedendo le politiche di processo prima ancora di quelle di prodotto

fonte: greenreport.it

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