lunedì 15 ottobre 2007

Alpi, ecco le vette a rischio

Un altro pezzo di montagna che se n'è andato, la guglia di Cima. Una precipitata il mattino di venerdì in val Fiscalina, una torre alta un centinaio di metri, sessantamila metri cubi di roccia, e ancora ieri una nuova nuvola di polvere. Le montagne sono condannate a rovinare a valle: lo decide la forza di gravità, con modi e tempi che dipendono dal tipo di roccia, dalla sua struttura, dal clima locale. C'è una rovina lenta, impercettibile, millenaria, fatta di piccoli frammenti quotidiani, c'è una rovina rapida, subitanea, immane, fatta di crolli di interi versanti.

Il ruolo del clima può essere determinante nell'innescare o accelerare questi fenomeni, soprattutto a quelle quote dove la roccia convive con neve e ghiaccio. I cicli di gelo-disgelo aprono come cunei le fratture, i ghiacciai che arretrano privano di appoggio le pareti di roccia, le temperature in aumento fondono il permafrost (il suolo gelato in profondità che talora fa da collante a placche rocciose instabili o tiene insieme masse di detriti di origine glaciale). Da una decina d'anni le alte quote alpine stanno sperimentando estati più lunghe e calde, con periodi in cui il termometro va sopra lo zero ddove da secoli ciò non capitava o era un fatto di pochi giorni.

A Giovanni Mortara, ricercatore del Cnr-Irpi con una vita dedicata allo studio di questi eventi, chiediamo il punto della situazione: "L'evoluzione delle nostre montagne è punteggiata di imponenti frane che poco o nulla hanno a che fare con i cambiamenti climatici, ma indubbiamente negli ultimi anni si percepisce un'accelerazione di questi fenomeni, attribuibile all'aumento termico. Nella rovente estate 2003, per la prima volta, la via italiana al Cervino è stata chiusa per via dei crolli dovuti alla fusione del permafrost; il 18 settembre 2004, 4 milioni di metri cubi di roccia si sono staccati dai 3650 metri della Cima Thurwieser in Val Zebrù; lo stesso era accaduto il 18 gennaio 1997 con il distacco di alcuni milioni di metri cubi di roccia allo sperone della Brenva sul Monte Bianco. La parete est del Monte Rosa, un tempo ammantata di ghiaccio, a partire dagli anni '90 appare sempre più annerita da scariche di detriti e crolli in roccia, come l'ultimo avvenuto il 21 aprile scorso ad oltre 4000 metri, in un periodo di temperature eccezionalmente elevate. Sono tutti casi dove l'aumento di temperatura e la fusione del ghiaccio hanno avuto una chiara responsabilità. Invece eventi come l'attuale crollo da Cima Una nelle Dolomiti a oltre 2600 metri, o quello avvenuto alle Cinque Torri nel 2004, posti a quote più basse prive di ghiaccio e permafrost, molto probabilmente non sono in relazione diretta con il clima".

Fino ad ora ci è andata bene e queste grandi frane non hanno causato danni irreparabili, ma è possibile prevedere dove si verificheranno in futuro? "In linea di principio si sa quali sono le montagne geologicamente più fragili, le Dolomiti per esempio sono molto soggette a crolli. Ma a livello pratico non è possibile stabilire con precisione dove e quando si verificherà un nuovo evento, tanto più che il cambiamento del clima sta proponendo nuovi scenari in zone storicamente non interessate da frane. Però con la continua osservazione delle zone dove vengono segnalate anomalie, anche grazie al telerilevamento aereo e da satellite nonché indagini laser, si possono tenere sotto controllo i movimenti delle rocce e fornire allarmi precoci. Il problema è che le Alpi sono un'area densamente popolata e frequentata, e quindi il rischio di coinvolgere persone o infrastrutture è più elevato".

Non basta dunque essere attrezzati per l'emergenza, la prevenzione e la pianificazione territoriale diventano strumenti indispensabili per evitare di costruire nuovi insediamenti nelle zone più esposte o permettere la protezione di quelli esistenti.

fonte: repubblica.it

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