«Il G-77 è estremamente preoccupato per l'idea che i Paesi sviluppati che fanno parte del Protocollo di Kyoto hanno dimostrato con la chiara intenzione di non voler accettare i nuovi obiettivi per il secondo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto - ha detto Wills - Il G77 respinge la nozione e la proposta di un "collasso" o del "taglia e incolla delle parti buone del Protocollo di Kyoto" (uno si chiede quale siano le parti cattive) in un nuovo singolo strumento legale nel quadro della Convenzione (Unfccc, ndr)».
La accusa dei cinesi ai 37 Paesi industrializzati dell'Annex I di voler sabotare il protocollo si è trasformata così nell'accusa alle nazioni "ricche" di voler assassinare lo spirito del Protocollo.
Dietro lo scontro nelle commissioni a Bangkok si cela la vera posta in gioco a Copenhagen: la possibile estensione degli obblighi del Protocollo di Kyoto con un secondo periodo di impegno a partire dal 2013, modificare il patto oppure farne uno nuovo con vincoli precisi anche per i Paesi emergenti (come chiedono da sempre gli Usa che non hanno firmato il Protocollo di Kyoto), un'ipotesi quest'ultima che trova resistenza in molte delegazioni dei Paesi in via di sviluppo.
Da queste posizioni reciprocamente intransigenti sembra smarcarsi solo l'Unione europea, il suo capo-delegazione, Karl Falkenberg, ha detto che «Se si guarda a Kyoto, ha tutte le caratteristiche per essere giuridicamente vincolante a livello internazionale, ma purtroppo il risultato è che fin dalla sua entrata in vigore abbiamo visto aumentare le emissioni. Certo, Kyoto non ha dato i risultati sostanziali che avremmo voluto. Dobbiamo tutti continuare ad appoggiare con favore il mantenimento di Kyoto. Ma pensiamo che non basti. Non siamo convinti che lo otterremo (le riduzioni di gas serra, ndr) con questo Protocollo di Kyoto, così come lo conosciamo».
Nelle riunioni informali e nelle sessioni ufficiali a Bangkok, i Paesi sviluppati hanno chiaramente fatto capire che accetteranno obiettivi e tagli più severi per la seconda fase di Kyoto solo se tutti i grandi emettitori, quindi anche gli Stati emergenti, accetteranno anche loro riduzioni di gas serra obbligatorie all'interno di in un accordo giuridicamente vincolante a livello mondiale. Il timore è che senza un riequilibrio della seconda fase del Protocollo di Kyoto, con impegni precisi degli Usa e dei Paesi in via di sviluppo, i maggiori inquinatori del pianeta alla fine non rispetteranno i tagli "volontari" dei loro piani nazionali e non ratificheranno nemmeno il protocollo che forse sarà approvato a Copenhagen.
Kim Carstensen, direttore dalla global climate initiative del Wwf , è molto preoccupato per la piega che ha preso la discussione a Bangkok: «E' davvero importante che tutti i Paesi riescano a dire si, pensiamo che il protocollo di Kyoto e l'architettura del protocollo di Kyoto possano e debbano continuare».
Le divisioni che rischiano di seppellire il Protocollo allarmano anche Claire Parker, dell'Iucn: «Non teniamo totalmente separati i due gruppi come fossero due partiti elettorali, o dovremo cominciare a costruire quello che gli Stati Uniti chiamano un "continuum that includes both". Questa è la grande questione».
Ma proprio dagli americani è venuta l'ennesima botta che ha reso ancor più duri i toni del confronto: «Non abbiamo intenzione di ratificare il Protocollo di Kyoto. That is out - ha detto senza mezzi termini il capo dei negoziatori Usa Jonathan Pershing in una conferenza stampa appositamente convocata - Ciò che gli Stati Uniti favoriscono, invece, è un nuovo quadro giuridico in cui tutti i Paesi dovrebbero fissare i loro sistemi di contenimento del carbonio, e concordare sul fatto che siano valutati e verificati da esperti esterni. Non stiamo chiedendo ai Paesi in via di sviluppo di impegnarsi per il risultato. Chiediamo loro di impegnarsi per l'azione stessa. Devono impegnarsi per ottenere il risultato. C'è una grande differenza».
Ma Cina, India e decine di Paesi in via di sviluppo non ci stanno: «Questo è un problema che è stato creato da una piccola minoranza di Paesi. La stragrande maggioranza dei Paesi in via di sviluppo ne sono vittime - ha ribadito ai giornalisti l'ambasciatore climatico della Cina Yu Qingtai - Il Protocollo di Kyoto precisa che la responsabilità è storica. E fino a quando le nazioni ricche non si assumeranno nuovi impegni per ridurre l'inquinamento di CO2 e per mettere i soldi sul tavolo per aiutare i paesi poveri a combattere il riscaldamento globale e far fronte alle sue conseguenze, Kyoto è l'unica garanzia per il mondo in via di sviluppo».
Gli fa eco il delegato del Bangladesh Quamrul Islam Chowdhury: «Il mantenimento di Kyoto non è negoziabile. L'Unione europea ha detto che appoggia il rafforzamento di Kyoto, ma qui, questa settimana, ha creato un putiferio suggerendo che le sue disposizioni principali potrebbero essere esportaste in un nuovo quadro».
Lo scontro è al calor bianco e Emmanuel Guerin, un analista dell'Istituto per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali francese, dice sconsolato all'Afp: «Penso di aver capito che non ci sarà nessun regolamento se non ci si muove verso quella direzione. Il processo di Kyoto, in quanto tale, con le sue disposizioni ed il suo nome, è probabilmente morto perché gli Stati Uniti non lo ratificheranno mai ed abbiamo bisogno della loro partecipazione».
Per Dessima Williams, capo negoziatore di Grenada e dell' Association of Small Island States (Aosis), che di global warming se ne intende perché lo vive sulla propria pelle, «Il dibattito su Kyoto è una distrazione dalle questioni fondamentali. Discutere di una nuova architettura, al momento, è come mettere il carro davanti ai buoi. Il vero problema è, abbiamo bisogno di impegni rigorosi e severi in materia di riduzione dei gas serra».
Ma chi ascolta la flebile voce delle piccole isole annegate nell'oceano mentre i grandi del mondo scatenano una rumorosa rissa che rischia di sfasciare tutto, anche il saloon in preparazione a Copenhagen?
fonte: greenreport.it
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