La vecchia mappa delle aree nucleari del Cnen risale al settembre del 1979, giusto trent’anni fa, quando venne consegnata al governo Cossiga una relazione di 19 pagine. La «Carta dei siti» si può trovare oggi pubblicata da qualche blog (generalmente antinuclearista) ed è stata rispolverata da Greenpeace per dimostrare che in Italia sarà assai difficile trovare posti adatti per gli impianti nucleari, data la maggiore vulnerabilità delle coste ai mutamenti climatici e all’innalzamento del mare. La discussione è destinata a riaccendersi in pochi mesi: dal prossimo marzo il ministero dell’Ambiente e la futura Agenzia nucleare si metteranno al lavoro per sottoporre a «Vas» (Valutazione ambientale strategica) il programma atomico nazionale.
E’ probabile così che prima della fine del 2010 inizino ad emergere i contorni delle «macro aree» ritenute idonee ad ospitare gli impianti. Ma anche se dal 1979 ad oggi parecchie cose sono cambiate — dalle caratteristiche dei reattori nucleari alla densità abitativa, fino alle serie storiche dei terremoti e al clima — non ci sono solo le più aggiornate e minuziose prescrizioni redatte dall’Iaea (l’International Atomic Energy Agency) a orientare la ricerca dei siti. Nel caso italiano il lavoro compiuto dal Cnen (dall’82 diventato Enea) continua a servire da pietra di paragone o addirittura da punto di partenza per gli studi che aziende come l’Enel e istituzioni come il ministero dell’Ambiente o dello Sviluppo stano approntando o dovranno redigere. Obiettivi dichiarati e vincoli sono gli stessi: sicurezza e ambiente da una parte e l’imprescindibile intesa con le Regioni dall’altra. Proprio ieri, peraltro, il ministro Scajola ha spiegato che «il potere sostitutivo del governo è uno strumento estremo che mi auguro di non dover utilizzare».
Per il Cnen, ieri come oggi, la «variabile demografica» costringe a ridurre drasticamente il territorio utile. Nel 1979 si pensava ad almeno dieci chilometri di distanza dalla periferia di centri con decine di migliaia di abitanti e venti chilometri per quelli superiori a centomila. Le distanze potrebbero essere riviste (il reattore Epr ha contenimenti impensabili trent’anni fa) ma si tratterà di un punto chiave. Tra gli altri fattori c’è poi la «sismicità», le cui serie storiche potranno considerare oggi non solo il Friuli, ma anche i terremoti di Irpinia, Umbria, Abruzzo. La lista dei fattori sensibili prosegue con il vulcanismo, l’acqua di raffreddamento (nel 1979 si prevedeva una distanza non superiore ai 10 chilometri da fiumi con portata minima di 12 metri cubi per 355 giorni l’anno) e le pendenze. Il Cnen, inoltre, non mancava neppure di segnalare i territori caratterizzati da intenso uso residenziale o turistico o da vincoli naturalistici e persino militari.
Un lavoro complesso, insomma, che ha comunque portato a identificare una serie di aree che nel Nord Italia gravitavano in particolare intorno al bacino del Po, alle sue foci e a quelle dell’Adige, e poi sulla costa veneta e friulana. Al Centro erano interessate porzioni di costa tirrenica della Toscana meridionale e dell’Alto Lazio anche all’interno della provincia di Viterbo. Al Sud parti di costa tra Molise e Puglia, il golfo di Manfredonia e ancora aree costiere tra Brindisi, Lecce e Taranto per proseguire sul litorale della Basilicata e di alcune zone ioniche della costa calabra. In Campania, invece, le aree del Garigliano e del Sele. Zone idonee anche sulle isole: Pianosa ad esempio, ma anche alcuni tratti della costa meridionale della Sicilia e altri in Sardegna tra costiera est, sud e ovest.
fonte: corriere.it
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giovedì 8 ottobre 2009
Centrali nucleari, ora l’Enel studia i siti: torna la mappa del ’79
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