venerdì 28 novembre 2008

L’energia sporca del Canada

Un’altra corsa al petrolio. Ma da “giacimenti” di sabbia bituminosa. Succede a Fort McMurray, nello stato dell’Alberta. Qui le miniere sono immensi canyon. Circondati da scorie e gas tossici. Siamo andati in un paradiso della natura che oggi è una discarica

Non è una città per turisti, Fort McMurray. Un’infilata di motel e negozi di liquori, fast food, stazioni di servizio, accampamenti di roulotte e il cartello all’ingresso che, orgogliosamente, dichiara, «We have the energy», abbiamo l’energia. Qui d’inverno il termometro scende anche a meno 35 e le 80mila anime che abitano questa cittadina dell’ovest canadese, hanno poco con cui distrarsi, a parte le partite della squadra di hockey locale, gli Oil Barons. Qui, del resto, blasonati del petrolio lo sono un po’ tutti, anche se non si avvistano pozzi in questo «Emirato del XXI secolo”, come lo definisce la stampa locale. Che lo ribattezza Fort McMoney e qui dichiara aperta «la nuova corsa all’oro».

Nero. E sporco. È «dirty oil» il petrolio che si estrae dal secondo giacimento più ricco del mondo dopo l’Arabia saudita: non sgorga dalla terra come in Texas, non viene dalle profondità tempestose come nel mare del Nord. Il petrolio di Fort McMurray è mescolato, in una poltiglia nera e velenosa, alle «tar sands», le sabbie bituminose che, nello stato dell’Alberta occupano 141mila chilometri quadrati di foresta boreale, il più grande ecosistema del mondo, poco meno di metà della superficie dell’Italia. Le conoscevano già i nativi americani che, di quell’impasto nero e appiccicoso, cospargevano il fondo delle canoe per renderle impermeabili, poi per decenni, dell’estrazione del dirty oil si sono occupate solo due aziende locali, la Suncor e la Syncrude. Nel 2003, con il prezzo del petrolio alle stelle, le major, Shell, Exxon, Chevron, Total e poi le cinesi Cnoc e Sinopec, hanno aperto 15 miniere a cielo aperto, che sono andate a sommarsi alle due degli inizi, con un investimento di 30 miliardi di dollari, che diventeranno 150 nel prossimo decennio, con l’apertura di nuove strade, la costruzione di oleodotti e raffinerie che, entro il 2015 dovrebbero essere in grado di coprire il 20 per cento del fabbisogno nordamericano.

Era il 2005 e il portavoce di Exxon Mobil, William J. Cummings, dichiarava: «Tutto il petrolio e il gas "facile" è stato trovato. Adesso viene il lavoro duro: trovare e produrre petrolio da zone più ardue». E se ardua è senz’altro la vita di chi lavora nelle miniere di Fort Mc- Murray, 20 minuti di lavoro all’esterno, 20 al coperto durante l’inverno (ma per stipendi che arrivano anche a 100mila dollari l’anno), ancora più ardua è la sopravvivenza per i residenti che al boom rischiano di soccombere. Chief Allan Adam è il capo di una First Nation, aborigeni della zona di Fort Chipewyan, villaggio indiano 300 chilometri a valle del nuovo Emirato. In aprile ha testimoniato davanti alle Nazioni Unite: per dire che la sua gente, che da secoli abita queste terre e che ha sempre vissuto di caccia e pesca, ora non può più: «Alcune specie di caribù sono scomparse e la carne degli altri non può essere consumata a causa dell’elevato livello di arsenico riscontrato» spiega. «E abbiamo trovato pesci e topi muschiati deformi. I dottori locali parlano di un aumento spropositato di casi di disordini immunitari, leucemie e di cancro, anche molto rari, nella zona. Abbiamo chiesto al governo di fare un’indagine sanitaria seria, ma non ci hanno mai risposto. “Fantasie” dicono».

Fort McMurray è circondata da miniere che sono veri e propri canyon, anche 80 chilometri quadrati, percorsi da camion il cui peso e dimensioni, 400 tonnellate, sono in proporzione. Le scavatrici lavorano 24 ore su 24, sette giorni a settimana con una produzione di 80 chili di gas effetto-serra per ogni barile di olio prodotto. Le raffinerie sono poco distanti. Il vapore necessario per separare sabbia e metalli dal greggio, viene dai 359 milioni di metri cubi di acqua che ogni anno vengono sottratti al fiume Athabasca, un quinto dei quali, carico di scorie di lavorazione, viene poi pompato in laghi artificiali, fino a 130 chilometri quadrati, circondati da cannoni a propano che a intervalli regolari sparano decibel per scoraggiare gli uccelli migratori dal posarsi sulle distese velenose. Un nuovo sistema di oleodotti infine convoglia parte del greggio giù giù fino al Midwest america americano perché venga raffinato. E il piano per un secondo che dovrebbe spedire 400mila barili al giorno da Edmonton, poco più a sud, alla British Columbia per essere poi esportato in Cina e in Asia è già in corso di attuazione. La produzione di dirty oil, oggi intorno ai 1,2 milioni di barili al giorno, dovrebbe triplicare a 3,5 milioni di barili entro il 2020. Con conseguenze tragiche per l’ecosistema.

«L’estrazione e la lavorazione del dirty oil sono responsabili del 4 percento delle emissioni di Co2 dell’intero Canada, e triplicheranno al 12 per cento nel 2020» spiega Simon Dyer del Pembina Institute, centro di ricerca sulle energie sostenibili di Calgary. «La politica canadese in materia di emissioni è debolissima, come quella statunitense, con la differenza che il Canada ha siglato il protocollo di Kyoto e poi non ha fatto niente per adeguarsi. Avremo dovuto ridurre le emissioni dal 6 al 10 per cento rispetto ai dati del ‘90 e siamo del 30 per cento sopra quei valori. Lo sfruttamento delle tar sands certo non aiuta». Il governo conservatore, appena riconfermato pensa soprattutto alle migliaia di nuovi posti di lavoro che il business ha creato.

Come in ogni febbre dell’oro che si rispetti avventurieri da tutto il mondo approdano a Fort McMurrayin cerca di fortuna. «La popolazione è aumentata a un ritmo (9 per cento all’anno negli ultimi sei anni, ndr) a cui gli scarsi servizi non possono far fronte» prosegue Dyer. «Non sono solo gli ingorghi e la gente che si adatta a vivere in scantinati il problema. Droga, alcolismo, prostituzione sono voci in attivo di un bilancio drammatico». Sono passati due anni da quando il premio Nobel Al Gore, parlando dell’Alberta, dichiarava: «Per estrarre un barile di petrolio da queste parti serve una quantità di gas naturale sufficiente a scaldare una famiglia per quattro giorni. È folle. Ma si sa, i tossici riescono a trovarsi le vene persino negli alluci». Lester Brown, fondatore, trent’anni fa, del Worldwatch institute e oggi presidente dell’Earth policy institute di Washington, di dipendenze se ne intende, avendo scritto un bestseller sull’argomento, Piano B. Una strategia di pronto soccorso per la Terra: «Con le tar sands siamo all’antiquariato delle politiche energetiche. Anche negli Stati Uniti le abbiamo, in Colorado ce n’è un discreto giacimento, ma ci guardiamo bene dall’usarle: troppo costosa l’estrazione, disastrose le conseguenze ambientali. Ormai persino i grandi produttori di petrolio stanno investendo nelle fonti rinnovabili. Il Texas alimenta con i generatori eolici esistenti sul proprio territorio le case di 24 milioni di persone e tra non molto sarà in grado di esportare elettricità pulita. Lo stesso vale per il South Dakota, il Maryland, il Wyoming, il Colorado. Se lo sviluppo dell’eolico proseguirà a questo ritmo, basterà l’energia prodotta da tre stati per sostenere tutta l’economia degli Stati Uniti. Tar sands e nucleare sono gli ultimi sussulti di un’era che sta per finire ». Un’era iniziata con la crisi petrolifera degli anni Settanta, figlia dei grandi investimenti fatti negli Ottanta e che ha toccato l’apice nei primi anni 2000 quando il prezzo del barile continuava a salire e le riserve a calare. «A quel punto anche l’estrazione di petrolio non convenzionale sembrava conveniente» spiega Ugo Bardi, professore di Chimica all’università di Firenze. Oggi è una scelta antistorica. Dalle sabbie si estrarrà ancora per qualche decennio, speriamo meno. Nonostante le fosche previsioni dell’Intergovernmental Panel for Climate Change, infatti, le immissioni di gas serra nell’atmosfera potrebbero rallentare. Se fosse solo una questione di petrolio e di gas forse gli effetti del riscaldamento globale potrebbero non essere così gravi come si pensa. Ma le buone notizie finiscono lì. Perché se insistiamo nell’estrazione delle tar sands e del carbone, i livelli si alzeranno sopra la soglia di guardia. Un suicidio». L’apocalisse parte dal Canada. Antidoti? «Siamo in ritardo. Avremmo già dovuto iniziare a investire in energie rinnovabili. Le grandi compagnie come Exxon, Shell e BP stanno correndo ai ripari. In Germania il 10 per cento dell’energia viene dall’eolico. In Italia siamo fermi all’1 per cento. E l’italiana Eni di investimenti in quel campo non vuol sentire parlare. Ha puntato tutto sui giacimenti del Caspio e del Kazakistan, estrazioni costose. Legate all’idea che il prezzo del petrolio salirà a 200 dollari al barile. Preistoria»

fonte: corriere.it

Nessun commento:

Google

Passatempo Preistorico

Moonstone Madness

Pronti a partire, pronti per distruggere tutto? Bene, allora fate un salto indietro nell'era preistorica e immergetevi in questa nuova avventura dal gusto tribale. A bordo del vostro cinghiale dovrete raccogliere le gemme preziose necessarie per passare alle missioni successive, saltando gli ostacoli se non volete perdere il vostro bottino e distruggendo i totem a testate per conquistare altre gemme utili. Inoltre, una magica piuma vi catapulterà verso il cielo dove punti e gemme preziose sono presenti in gran quantità, per cui approfittatene! cercate di completare la missione entro il tempo limite, utilizzando le FRECCE direzionali per muovervi, abbassarvi e saltare, e la SPACEBAR per prendere a testate i totem.

Change.org|Start Petition

Blog Action Day 2009

24 October 2009 INTERNATIONAL DAY OF CLIMATE ACTION

Parco Sempione - Ecopass 2008

Powered By Blogger