domenica 30 novembre 2008

Messina città negata

Tra un mese, il 28 dicembre, oltre tremila famiglie “celebrano” nelle baracche il centenario del sisma. Viaggio nelle speranze deluse delle favelas di casa nostra

UN CENTESIMO ANNIVERSARIO evoca celebrazioni, discorsi in pompa magna, targhe e ricostruzioni storiche. Di tutto questo il centenario del terremoto che ha distrutto Messina e Reggio Calabria il 28 dicembre 1908, togliendo la vita a 80mila persone, non ha bisogno. Sono le baracche il vero, vergognoso monumento al sisma di 10 gradi della scala Mercalli che quella mattina di un secolo fa, in 37 lunghissimi secondi, ha raso al suolo gran parte della città siciliana. Una ferita ancora sanguinante nella storia e nella dignità di un popolo.

SLUM ITALIA
Siamo andati a vedere con i nostri occhi: un flashback sensoriale ci riporta tra i terremotati dell’Irpinia agli inizi degli anni Ottanta. Nulla da invidiare alle favelas brasiliane o agli slum di Nairobi. Tra vicoli stretti, spazi umidi e angusti e fogne che esondano, la sensazione più forte girando nei quartieri di fondo De Pasquale, fondo Basile, Giostra, Annunziata, Camaro, fondo Fucile e fondo Saccà è l’odore di detersivo che fa da contrappunto alle precarie condizioni igieniche. «Stiamo sempre a lavare e a pulire – racconta una signora che vive con marito, figli e nipoti in trenta metri quadri – Qui è pieno di topi e insetti di ogni tipo. E se d’inverno sotto queste lastre di eternit si crepa dal freddo, l’estate è una continua lotta contro ospiti indesiderati e odori nauseabondi». Quello di Assunta Irrera è uno dei 3.100 nuclei familiari che occupano le 3.336 baracche esistenti: cartongesso, amianto che cade a pezzi, lamiere e talvolta legno vecchio cent’anni, proprio lo stesso delle prime baracche approntate dopo il sisma all’Annunziata. In un secolo al legno si sono aggiunte quelle in muratura del ventennio fascista e le “casette ultrapopolari ad uso provvisorio” del dopoguerra.
OCCASIONE SPRECATA
Il centenario celebrato con tanto di francobollo e convegno internazionale all’università qui è lontano anni luce dalla solennità. «È stato emesso un francobollo commemorativo – dice Giovanni d’Arrigo, che per Legambiente dei Peloritani segue con passione la questione del “risanamento” – ma poi ci si dimentica delle migliaia di persone messe ai margini della civiltà. Speravamo che il centenario fosse un’occasione per riportare al centro del dibattito regionale e nazionale la questione, ma per ora non si vedono novità di rilievo». Si era anche fatto cenno a una possibile visita del presidente della Repubblica, ma non se n’è fatto più nulla. «Napolitano qui non aveva nulla da inaugurare» commenta laconico D’Arrigo. Possibile che nessuno si sia fatto carico, in tutti questi anni, di affrontare la questione? «Politici ne arrivano a bizzeffe quando si tratta di avere il nostro voto – riprende Assunta mentre ci mostra gli spazi angusti della sua abitazione – Poi dopo le elezioni spariscono. È venuta la televisione. Striscia la notizia e perfino la Rai ne hanno parlato, però nessuno si è fatto carico di trovarci una sistemazione più degna».
GUERRA FRA POVERI
Ma che fine ha fatto la legge sul risanamento, quella che nel 1990 stanziava 500 miliardi di lire per lo sbaraccamento e la riqualificazione? «Di quei soldi sono stati usati soltanto 150 milioni. Dei 350 restanti si sono perse le tracce – denuncia Enzo Colavecchio, presidente di Legambiente dei Peloritani – I piani particolareggiati sono stati approvati solo nel 2002 (e nel 2004 la Regione ha stanziato altri 70 milioni di euro) ma di nuove costruzioni non si vede neanche l’ombra». Poi capita che chi riesce ad avere la casa popolare piazzi il figlio nella baracca, o addirittura la venda, nonostante il censimento del 2003 tolga il diritto all’assegnazione di alloggi a chi è arrivato dopo. E tra gli assegnatari molti hanno ricevuto gli alloggi senza certificato di abitabilità o senza i servizi essenziali, semplicemente in custodia, per evitare che se ne appropri qualcun altro. Le guerre fra poveri qui sono all’ordine del giorno. «Sono messinese, ma la mia città mi ha abbandonato nel fango da cinquant’anni – spiega Antonio Mancuso, 77 anni – non ho mai avuto i soldi per potermi permettere una casa, ma ho sempre cercato di vivere con dignità, anche se abitavo in una baracca. Quest’ambiente degradato, però, ha portato anche me a fare degli errori e a cedere a violenza e disperazione».
IL PONTE DEI PERICOLI
Siamo a ridosso dei luoghi che potrebbero ospitare il ponte sullo Stretto, in una zona dove un recente studio dell’Ispra (l’ex Apat) conferma che il rischio sismico, oltre a quello di frane e maremoti, è particolarmente elevato a causa dell’intenso sviluppo urbano. «Eppure – conclude Colavecchio – si decide di spendere sei miliardi di euro per un’opera che rischia di crollare già durante i lavori di costruzione, mentre una classe dirigente tutta di centrodestra dal Comune alla Regione non trova qualche decina di milioni per ridare dignità a una città e all’intero paese che, passivo o inconsapevole, ospita un pezzo di mondo sottosviluppato».
info www.messinacittanegata.it

fonte: lanuovaecologia.it

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