lunedì 18 febbraio 2008

Bugie in campo

RA LE BUONE EREDITÀ CHE CI HA LASCIATO il 2007 c’è che ormai nessuno sente di poter negare le responsabilità delle attività umane sui cambiamenti climatici. Resta però un problema: al riconoscimento del disastro in corso non corrisponde un’effettiva volontà di mitigare il problema né di chiarirne le dinamiche.

PER MITIGARE L’INSTABILITÀ CLIMATICA sono necessari cambiamenti pratici nei modelli di produzione e consumo. Le regole Wto di liberalizzazione del mercato sono di fatto leggi che costringono i paesi a emettere di più. Anche le attività di Banca Mondiale, con i finanziamenti per la costruzione di autostrade e centrali termoelettriche e per la meccanizzazione dell’agricoltura, portano all’aumento delle emissioni. Le multinazionali alimentari hanno responsabilità ancora più gravi. Cargill ha per esempio un ruolo fondamentale nella diffusione delle monocolture di soia nella foresta amazzonica e delle piantagioni della palma da olio nelle foreste pluviali indonesiane, contribuendo così all’effetto serra sia con gli incendi forestali che con la distruzione di importanti carbon sink. Anche il modello commerciale centralizzato di Wal-Mart, con il trasporto di merci per lunghissime distanze, è una ricetta infallibile per l’aumento del carico di CO2 in atmosfera.

IL PROTOCOLLO DI KYOTO, DI FATTO, non si oppone alle attività che comportano l’aumento delle emissioni di gas serra. Ha invece messo in atto il meccanismo dell’emission trading, che ricompensa gli inquinatori assegnando loro quote di proprietà dell’atmosfera e diritti di emissione. Oggi questo mercato ha raggiunto i 30 miliardi di dollari l’anno e si prevede che possa raggiungere i mille miliardi. Nel frattempo, insieme ai profitti del “mercato dell’aria calda”, la CO2 in atmosfera continua ad aumentare.

UN’ALTRA FALSA SOLUZIONE CHE VIENE PROPOSTA per affrontare la crisi climatica è la campagna a favore dei biocombustibili, a partire dal grano, dalla soia e dall’olio di palma e di jatropha. I biocombustibili, ricavati da biomasse, sono attualmente la principale fonte di energia per i cittadini più poveri in tutto il mondo. La tradizionale fattoria ecologica diversificata non è solo un luogo di produzione di cibo ma anche di energia: quella necessaria alla cottura dei cibi e al riscaldamento è ricavata dalla combustione di biomasse non commestibili come il letame essiccato del bestiame o i gambi dei cereali e dei legumi. Gestite in modo sostenibile, le fattorie sono state dei modelli di produzione energetica decentralizzata sostenibile per secoli. I biocombustibili industriali sono invece cibo dei poveri trasformato in calore, elettricità e trasporti. In particolare, l’etanolo e il biodiesel rappresentano uno dei settori produttivi a più rapida crescita. Nella realtà dei fatti, però, l’utilizzo di generi alimentari come materia prima per combustibili ha già provocato gravi danni, come l’aumento del prezzo di soia e granturco.

INOLTRE, SEBBENE siano presentati come fonte di energia alternativa, i biocombustibili hanno gravi effetti collaterali anche sul clima. In primo luogo a causa delle deforestazioni causate dall’aumento delle coltivazioni: secondo la Fao, tra il 25 e il 30% dei gas serra rilasciati in atmosfera ogni anno provengono dalla deforestazione. Poi perché la produzione e l’utilizzo dei biocombustibili è tutt’altro che carbon free: uno studio dell’istituto olandese Delft hydraulics dimostra che una tonnellata di olio di palma comporta l’emissione di circa 30 tonnellate di CO2, vale a dire dieci volte le emissioni del petrolio. A queste vanno aggiunte ingenti quantità di pesticidi, diserbanti, fertilizzanti e acqua. Nel caso dell’etanolo da granturco, il rapporto è di 1.700 litri d’acqua per ogni litro di etanolo.

CI PREME INSOMMA SOTTOLINEARE che quando si cerca una risposta concreta alla crisi energetica e al caos climatico non si può parlare genericamente di agricoltura. Per dare un effettivo contributo alla stabilità climatica, l’agricoltura deve essere biologica, di piccola scala e decentralizzata. Sono queste le basi su cui partire per stabilire gli obiettivi del post-Kyoto.

fonte: lanuovaecologia.it

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