Qui, nella baia davanti al villaggio di Gjoa Haven nella King William Island, esattamente 105 anni fa, a metà settembre, gli Inuit cacciatori di orsi videro attraccare gli uomini che avevano trovato la strada giusta. I primi stranieri dopo i vichinghi. Roald Amundsen con la sua barca di pochi metri e sei uomini d'equipaggio. Ed è qui, nell'altro Capo Horn, nel luogo cercato inutilmente per secoli e che ha tolto il sonno a Giovanni e Sabastiano Caboto, Henry Hudson, Edward Parry e altri, che si chiude la nostra esplorazione attorno al Polo, circumnavigabile per la prima volta dopo centomila anni.
Nel varco di Bering tra Asia e Americhe abbiamo visto il passaggio a Nordest e quello a Nordovest confluire una tempesta di correnti come cento Mississippi. Sulla costa Nord dei balenieri alascani ci siamo affacciati sulla finestra più impressionante che il nuovo clima ha aperto nella banchisa, una fuga dei ghiacci di trecento miglia verso Settentrione. Ora, dopo gli stretti e il mare aperto, tocchiamo il fondo del labirinto.
L'Artico è peggio del Sahara, dà una più terribile rappresentazione del nulla, specie in questa stagione in cui muoiono la luce e i colori. Dopo le prime deboli nevicate sui licheni, le isole, in controluce, paiono macchie iridescenti di nafta in un mare traslucido come zinco, increspato qua e là da zampate di vento.
La terraferma è un puro miraggio, non ha più consistenza dell'ombra di una nuvola sul mare. L'occhio
non ha niente cui aggrapparsi, e vano sarebbe cercare promontori e falesie come in Bretagna, Irlanda e Scandinavia. La Terra è un ammasso di brandelli stinti, pezzi di biancheria a mollo nella candeggina.
Il nulla comincia molto lontano, nei territori canadesi
del Nordovest, con l'aereo che sorvola un arcipelago di graniti neri affioranti, laghi e foreste, immerso nella pioggia e nella foschia come in un fondale marino. È un cargo con una sezione passeggeri di appena sedici poltrone, così spartano che per fare la pipì in volo i piloti devono attraversare il vano bagagli e raggiungere
la coda del velivolo attraverso una porticina che li obbliga a mettersi quasi carponi.
Il turboelica s'infila in un sandwich tra due strati di nubi; dal finestrino ne seguo la posizione in basso, attraverso l'ombra iridescente appoggiata sul dorso della bambagia. Siamo in nove passeggeri per un viaggio di milletrecento chilometri, come da Milano a Tunisi, e con sotto il niente. Non un paese, non una montagna, non una strada. Lo stato del Nunavut è così, non riesci a prenderne le misure. Contiene
due fusi orari, va dai confini dell'Alaska alle porte dell'Atlantico dove si forma la corrente del Labrador, e quando arriva il gelo le sue isole diventano un'unica,
compatta distesa continentale.
Faccio conoscenza con i primi indigeni; sono una via di mezzo tra il cinese e il pellerossa. Una giovane allatta il suo cucciolo sul sedile accanto e parla così piano che
devo avvicinarmi in modo imbarazzante per capire. Agli Inuit devi parlare a bassa voce, se no si spaventano. Chiedo al comandante Bobby Smith cosa significa volare con questi trabiccoli negli spazi artici. "La stagione peggiore è questa. Arrivano tempeste improvvise, le previsioni sono difficili. Si vola bene o in piena estate o nel cuore dell'inverno".
Atterriamo con vento laterale, l'aereo balla, le rocce di Gjoa Haven sono incrostate qua e là di neve fresca. L'aeroporto è una casetta sollevata da terra su zampette di legno, come uno scarabeo, gli addetti al rifornimento dell'aereo aspettano piegati nelle raffiche, intabarrati in tute pesanti. Le antenne paraboliche
puntano verso il basso, segno che siamo molto in alto sul Pianeta Terra. Il paese è a un chilometro appena, ma nessuno fa volentieri la strada a piedi per via degli orsi bianchi. Tempo fa, su una strada simile delle Isole Svalbard una donna che s'era messa a camminare verso l'aeroporto non è mai arrivata a destinazione.
Mi avvertono subito: qui non si muore, si scompare. Un mese fa due canoisti sono partiti verso il Passaggio a Nordovest e non sono mai tornati. "Avevamo detto state attenti - racconta una giovane di nome Catherine qui in trasferta da otto mesi - gli orsi sono affamati per via del ghiaccio che si ritira, ma loro hanno risposto che gli orsi non si sarebbero curati di loro". Invece l'orso affamato va dove vuole, non per niente lo chiamano Pitsulertaq, che vuol dire "il grande viaggiatore". Orsi americani continuano a passare lo Stretto di Bering su pezzi di ghiaccio, ignorando correnti e cortine di ferro.
Il paese, duemila anime, è un accampamento di prefabbricati con in mezzo una casermetta con mensa, l'albergo Amundsen, dove trovo posto accanto alla lavanderia. Niente internet, niente "room service", ed è meglio così. Meglio non avere filtri tra te e il Polo che scivola verso la notte.
Scendo verso il mare, per poco non inciampo su un cane appiattito nella brughiera. Un micidiale cane da slitta, occhi azzurri e mascelle come tenaglie. Prendo una paura bestia, ma lui è legato e scodinzola. Sento abbaiare intorno, mi accorgo che il paese è circondato di cani legati nella brughiera. Decine di cani. Non hanno ripari, e così ognuno s'è scavato un buco per ripararsi dal freddo. I cani del Polo hanno un rapporto simbiotico con l'uomo, anche se è uno sconosciuto. Si aspettano cibo e una carezza, si mettono subito a pancia all'aria.
Un bambino esce di casa, spara in aria con un fucile-giocattolo, viene a chiedere come mi chiamo e mi porge una palla di neve perché la lanci lontano. I bambini Inuit sono tra i più felici del Pianeta. Sempre liberi, senza regole. A metterli in riga basta una natura feroce.
Il vento porta suono di tamburi, nella sala-riunioni c'è una festa per l'arrivo di una piccola nave russa, la "Akademik Loffe", che vedo alla fonda un po' fuori dalla baia. C'è mezzo paese, l'arrivo di una nave qui è sempre un evento. Due Inuit picchiano su una pelle di fegato di foca, tirata su un cerchio di legno. Il suono è cupo, il canto che l'accompagna ricorda le nenie dei pellirosse del Nord. È lì che apprendo il bollettino dello sfacelo.
Cinquecento chilometri a Nord, un pezzo di ghiaccio grande come Manhattan si è staccato dall'isola di Ellesmere e naviga in rotta di collisione con altre isole. Una fetta del ghiacciaio Markham è letteralmente sparita in mare, in pochi giorni, senza lasciare traccia. Il Serson ha "varato" nell'Artico un'isola di 47 miglia quadrate. Lo stesso con il Ward Hunt, uno dei più grandi della Terra, che ha consegnato al mare un'altra gigantesca zattera bianca e s'è talmente fessurato che ci si aspetta una sua rapida disintegrazione. Paradossale: proprio ciò che ha aperto la strada del Polo rende pericolosa la navigazione.
All'inizio trovo solo conferme. Peter Irniq, l'anziano più autorevole di Gjoa Haven ripete quanto ha già riferito al governo di Ottawa. "In nessun altro posto al mondo il riscaldamento globale ha picchiato così duro... Gli Inuit sono una delle ultime culture di caccia della Terra e le loro abitudini sono sconvolte. Temporali in pieno inverno, buriane in estate e ghiaccio che gela sempre più tardi". Jerry Arqviq: "In passato nessuno mai veniva colto di sorpresa dal tempo. Oggi quando vado a caccia sono obbligato a portarmi scorte di cibo e carburante, perché non si sa mai. I nostri vecchi uscivano in mare aperto perché c'erano periodi lunghi di tempo stabile. Oggi nulla è garantito".
Trovo anziani che discutono animatamente, ma a voce così bassa che sembrano comparse di un film muto. Parla con i vecchi, mi ha detto Ararad Katchikian, un formidabile armeno che allena cani da slitta sulle Alpi e conosce l'Artico come pochi. I vecchi hanno la memoria, gli scienziati no. "Per questo puoi avere sorprese", mi ha avvertito. Sì, perché alla faccia dell'effetto serra, qui d'inverno arriva ancora un mare
di neve, con temperature anche di meno sessanta nello Yukon. E poi in Islanda, in Patagonia, in California e nel Sud dell'Alaska ci sono ghiacciai che crescono, ma nessuno ne parla.
Difatti la sorpresa arriva. C'è un vecchio che è una foresta di rughe, può avere anche novant'anni e scatarra come un minatore con la silicosi. Si presenta come Harry, dice: "My grandfather of grandfather of grandfather...", il nonno del nonno del nonno..., e sembra che scavi a mani nude per cercare qualcosa nel profondo del tempo. "I miei antenati hanno visto estati calde come questa, con gli orsi che non avevano da mangiare... Qallunaag... è arrivato in una stagione come questa, perché il Grande Passaggio era diventato navigabile...".
Qallunaag? Qui vuol dire "lo straniero", ma prima, tanto tempo fa, voleva dire il vichingo, l'uomo barbuto che sbarcò dai drakkar dopo aver toccato la Groenlandia. Qallunaag: letteralmente "l'uomo dalle folte sopracciglia", quale in effetti era l'abitante dei fiordi scandinavi giunto con le lunghe navi. Me l'ha spiegato Gabriella Mossa, una che ha speso la vita a studiare i popoli del Nord. Ma allora, forse, al tempo dei vichinghi faceva già così caldo... e chissà, forse il Polo è già stato circumnavigabile... Ma Qallunaag se
n'è dimenticato, l'uomo bianco ha la memoria corta.
Ma ora anche i giovani Inuit perdono la memoria, mangiano salsicce e ketchup. La spesa a chilometro zero è finita, e pochi vanno a caccia con le regole antiche. "No understand, no good killing baluga kid", dice Foresta di rughe, "non capiscono che non è giusto ammazzare cuccioli di baluga perché la popolazione potrebbe estinguersi". Il vecchio sente i pericoli che circondano il suo mondo millenario. Su un muro c'è un disegno di bambini sul tema: "cosa rende sani". Sono elencate cose come amore, sport, salute, musica, luce elettrica, ma la prerogativa più importante è scritta a caratteri cubitali: "No alcohol".
Scopro che a Gjoa Haven l'alcol ha fatto danni tali che è stato proibito. Il paese è "Alcohol free". Niente vino e birra nemmeno in albergo. Cena monacale alle cinque e mezza, menù uguale per tutti. Sul piatto niente caribù o carne frollita di foca, ma pollo, riso e verdure. Mangio fra i soliti rocciosi tatuati, lavoratori e tecnici in missione, accanto a un quadro con la faccia di Amundsen, unico umano tra effigi di lupi e orsi.
Corey Dimitrik, operaio di Cambridge Bay di discendenza russa, racconta che nel Passaggio a Nordovest arrivano tutti gli originali, solitari o in coppia, a piedi, in kayak, e fanno distanze pazzesche. Apprendo che due mesi fa è passata per Gjoa Haven la prima nave da crociera, tedesca, e che le petroliere, visto il clima che si riscalda, si preparano a passare in Atlantico col greggio dell'Artico. Scenari inconcepibili solo un anno fa. Intanto la Tv trasmette la partita di rugby Toronto-Winnipeg e fuori ricomincia a nevicare.
Annotta. Per strada giovani locali urlano come lupi, fanno sgommare le moto a quattro ruote. Rispondono con rabbia all'inverno che viene e c'è da capirli. La sera, senza un grappino, è come se una pietra tombale ti allungasse sopra un cono d'ombra. Provo lo stesso orrore di uno che è spinto sull'orlo di un burrone, e capisco che in posti così possa venire la tentazione di abbandonarsi fra le braccia di un gelo anestetico per sparire in silenzio.
Visto da qui, a quest'ora e in questa stagione, il riscaldamento climatico pare l'idea scema di scienziati sedentari. Mi chiedo: ma stiamo davvero andando verso il Grande Caldo? E se non è più il Grande Freddo di una volta, allora che cos'è stato l'inverno in passato nelle terre polari? E se tornasse di nuovo il freddo? Michele Rebesco, un ricercatore dell'Osservatorio geofisico di Trieste appena rientrato dalle Svalbard, mi
ha spiegato che, se i ghiacci continuano a sciogliersi, l'acqua del Polo perderà molta della sua salinità, rallentando l'afflusso delle correnti oceaniche e facendo
precipitare nel gelo il Nordeuropa. Pare che tre milioni di anni fa una grande glaciazione sia iniziata proprio in un momento simile al nostro, segnato da un'atmosfera
satura di CO2.
Telefono a una barca a vela italiana che so appena uscita dalle terre del Labrador dopo una crociera di tre mesi e chiedo che tempo fa da quelle parti. Risponde lo
skipper Alfredo Giacon dal porto di Boston. "Fino a una settimana fa abbiamo avuto solo freddo e burrasche. Non c'è stata quasi estate... Il ponte in tek ha perso il
solito colore giallo ed è diventato verde di muschio. Ci sono state mattine in cui non abbiamo potuto mettere il naso fuori... Devo dire che sono sempre meno ottimista sulla possibilità di navigare a queste latitudini".
A notte, sotto il piumino, mi torna il mente una canzone: il Lamento di lady Franklin, la moglie del capitano che qui, a metà Ottocento, sparì nel nulla con due grandi velieri e i loro equipaggi, mentre cercava il Passaggio a Nordovest. "In Baffin's Bay where the whale fish blow...", nella Baia di Baffin dove la balena soffia / nessuno può conoscere il destino di Franklin / il destino di Franklin nessuna lingua lo può raccontare / Lord Franklin dimora tra i suoi marinai". Il vento miagola nelle fessure della finestra, chissà se l'aereo potrà partire l'indomani. Ma poco importa. Sto già pensando a lei, la bianca regina che viene
fonte: repubblica.it
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