lunedì 10 novembre 2008

CO2? La soluzione è nel geosequestro

Se si pensa che una nuova centrale a carbone da 1000 MW di potenza rilascia ogni anno nell’atmosfera 6 milioni di tonnellate di CO2, risulta evidente che intraprendere efficaci contromisure sia una strada che attende solo d’essere percorsa. Nel tanto citato pacchetto di misure proposto dall’Unione Europea il CCS, il Carbon Capture and Storage, rappresenta uno dei fondamentali strumenti per raggiungere l’obiettivo di riduzione del 20% delle emissioni di gas serra entro il 2020. Ma ipotizzando d’essere riusciti a catturare efficacemente il biossido di carbonio dai fumi di una centrale, in post combustione, pre-combustione o attraverso ossi-combustione, cosa succede dopo? Per “seppellire” la CO2 serve un sito idoneo dove possa essere iniettata a circa un chilometro di profondità nel sottosuolo a pressioni elevate, tali da raggiungere il comportamento cosiddetto “supercritico”, uno stato assimilabile al gas per la capacità di diffondersi rapidamente negli spazi porosi della formazione geologica e simile al liquido in termini di densità e quindi di quantità immagazzinabili. La ricerca attuale si sta concentrando su giacimenti esauriti di idrocarburi e sugli acquiferi salini (corpi idrici profondi di enorme capacità di assorbimento per la CO2) considerati serbatoi adatti al confinamento permanente. La piattaforma tecnologica europea ZEP- Zero Emission Power, istituita per identificare valide tecnologie CCS (ma soprattutto abbassare i costi, che dovrebbero essere dimezzati entro il 2030) ha elaborato dei dati inerenti alle potenzialità dei vari metodi utilizzabili per il confinamento della CO2: si passa da una potenzialità molto bassa relativamente ai metodi chimici delle reazioni mineralogiche, a valori più alti associati ai giacimenti esauriti di olio e gas, fino a quelli molto più elevati del confinamento geologico in acquiferi salini profondi.
A sentire gli scienziati della Columbia University di New York a far sperare ora sarebbe il confinamento in fase cristallina all’interno delle formazioni sotterranee di rocce sedimentarie, che potrebbe compensare annualmente miliardi di tonnellate di emissioni di CO2. Il team di ricercatori è attualmente al lavoro su un nuovo metodo di CCS, con cui ha preso in esame alcune formazioni rocciose di peridotite, localizzate nell’Oman ed in altre aree terrestri tra cui la California e la Nuova Guinea, ed il processo di carbonatazione a loro carico, ovvero la produzione di carbonati una volta che questi minerali entrano in contatto con l’anidride carbonica presente nell’aria o nelle acque. Si tratta della normale attività di queste rocce presenti in vaste regioni della crosta terrestre, anche in formazioni superficiali o poco profonde, dunque di facile accessibilità e che attraverso lenti processi naturali sequestrano in una rete di vene sotterranee centinaia di migliaia di tonnellate di CO2 l’anno. Nella sua composizione chimica la peridotite contiene grandi quantità di silicati naturali, come olivina o serpentino, che entrando in contatto le falde acquifere (l’acqua circolante nel sottosuolo) reagiscono rilasciando magnesio e bicarbonato e aumentando la concentrazione di carbonio in acqua di circa 10 volte. Quando l’acqua filtra più in profondità nella roccia, escludendo il contatto con l’aria, il magnesio, carbonio, ossigeno precipitano dalla soluzione formando magnesite (detta anche carbonato di calcio MgCO3) e dolomite (MgCa[CO3]2). La loro formazione aumenta il volume della roccia di circa il 4%, determinando la formazione di una rete di micro fratture che permette all’acqua di penetrare ancor più all’interno. Finora il limite principale ad una immediata applicazione su scala industriale della carbonatazione minerale era rappresentato dalla ridotta velocità del processo, ma ora i ricercatori sono convinti che questo processo naturale possa essere velocizzato in modo sensibile grazie alle tecniche comunemente impiegate dall’industria petrolifera per aumentare la produzione di greggio: creando ulteriori fratture nella roccia e di conseguenza aumentando la superficie disponibile per le reazioni. Il procedimento, spiegano gli scienziati, richiederebbe solo l’attivazione della peridotite tramite iniezione di acqua calda a 185° C, contenente CO2 pressurizzata, in maniera tale da moltiplicare di un fattore 100 mila o più i processi di cattura naturali che richiedono migliaia di anni. Il passo successivo sarà necessariamente quello di valutare a fondo costi ed efficienza associati attraverso una fase di sperimentazione in laboratorio. E anche in Italia questa nuova prospettiva viene seguita con interesse: tra i differenti studi per il geo-confinamento dell’anidride carbonica avviati dall’Istituto di geoscienze e georisorse del CNR c’è anche quella del sequestro mineralogico in sito nei giacimenti di serpentino toscani. Questo tipo di silicati, frequenti nella regione alpina e, soprattutto, in quella appenninica potrebbero in teoria – secondo i ricercatori dell’Igg-CNR – sequestrare l’intera quantità di CO2 antropica prodotta in Italia nei prossimi duecento anni.

fonte: rinnovabili.it

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