Gli esperti lo chiamano il “tiranno gentile”. Per Omero, di fronte a lui, piegano il capo (“sottomessi”) sia gli uomini sia gli dèi. Con il sonno, si impara presto a scoprirlo, non c’è volontà che possa imporsi. Lui, il sonno, scandisce, a suo piacimento, il ritmo dei nostri giorni e determina, quasi subdolamente, il nostro umore. Ad esso ci affidiamo come a una medicina misteriosa di cui non conosciamo il composto. Non sempre, come accade spesso per le cose più belle, si lascia afferrare. Soprattutto quando i pensieri ci vengono dietro e ci seguono fin sotto le lenzuola nella nostra segreta strada verso l’addormentamento. Soprattutto quando al lavoro le cose non vanno per il meglio.
E' così, ogni santa notte, per una buona percentuale di italiani. Per colpa di quel che accade negli uffici frequentati di giorno. Uno su dieci non riesce mai o quasi mai a prendere sonno. E non sono soli. Un altro cinquanta per cento si ritrova saltuariamente, a causa della vita in ufficio, a fare i conti con l’insonnia una volta rientrato in casa e spenta la luce. I risultati sono quelli della ricerca globale realizzata da Kelly Services, l’operatore nel settore dei servizi per le risorse umane, che per indagare sulla relazione tra salute e lavoro ha ascoltato un campione di 115 mila lavoratori, di cui 17 mila in Italia, in 33 paesi del mondo.
I numeri svelano come sia sempre più stretto il legame tra lavoro e vita privata. Numeri che, pure se in linea con quelli di altri paesi come Germania e Stati Uniti, destano qualche preoccupazione . “Negli ultimi anni il lavoro non è più percepito unicamente come funzionale al sostentamento, ma è diventato l’ambito privilegiato per la realizzazione del sé. In questo senso, è 'normale' che parallelamente all’importanza attribuita alla professione nella costruzione dell’identità individuale, crescano anche le aspettative e quindi le preoccupazioni”. Per Stefano Giorgetti, direttore generale di Kelly Services Italia, “è sicuramente importante che le aziende prendano coscienza di questo aspetto e agiscano di conseguenza: infatti la capacità delle imprese di creare un contesto lavorativo piacevole è uno dei principali asset che contribuiscono alla crescita e alla salute di un’organizzazione”.
Ma quali sono le principali cause del “mal di lavoro”? Agli italiani a creare maggiori problemi è la mancanza di una corretta valorizzazione dell’attività svolta. Più di quanto non accada in altri paesi. Da noi infatti la indica come fonte di stress il 17 per cento. Seguono l’assenza di spirito di squadra e l’ansia da prestazione dovuta ad eccessive pressioni psicologiche. Per Giorgetti “questo fenomeno non corrisponde alla reale percezione che il manager ha dei propri dipendenti, ma è più frequentemente correlabile a una scarsa gestione delle politiche di comunicazione interna all’azienda. Questo è particolarmente vero in quei Paesi, come l’Italia, dove lo sviluppo delle risorse umane intese come approccio strategico alla gestione aziendale si è affermato solo di recente, ma è un gap destinato a diminuire”.
Tra le cause principali del malessere per gli italiani non ci sono invece il monte ore lavorato e l’eccessiva sedentarietà, che sono nelle posizioni di testa delle lamentele a livello globale. Visto che gli italiani lavorano molto, e non certo meno degli altri, per Giorgetti, “la minore criticità nel giudizio degli italiani rispetto ai colleghi di altri Paesi può essere ricondotta al fatto che, nel caso dei lavoratori del settore dei servizi, lo scontento per le ore lavorate non dipende solo da una valutazione oggettiva del tempo trascorso in ufficio, ma investe anche la sfera soggettiva, quella del “tempo percepito”. Secondo i dati del sondaggio solo una minima parte della forza lavoro del nostro Paese teme che la propria professione possa minare seriamente il proprio equilibrio psicofisico. Diverso invece è il discorso per le professioni usuranti. In Italia infatti esiste una normativa estremamente attenta e articolata a tutela di questa particolare categoria di lavoratori che regola la durata massima dell’orario giornaliero, impone pause e prevede la possibilità di pensionamenti anticipati”.
Secondo i risultati della ricerca, il 14 per cento degli italiani ritiene che l’esercizio della propria professione abbia un impatto negativo sul proprio equilibrio psicofisico. Allo stesso tempo il 13 per cento è convinto che anche nel futuro il lavoro sarà causa di danni alla salute. I dati italiani sono ad ogni modo più confortanti di quelli riscontrati in altre nazioni e la media globale è pari al 19 per cento. I più preoccupati (o più consapevoli?) sono i lavoratori di Giappone e Canada dove le percentuali di chi afferma che il lavoro ha inciso negativamente sul proprio stato di salute raggiungono, rispettivamente, il 60 per cento e il 47 per centofonte: repubblica.it
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