lunedì 7 dicembre 2009

I sette protagonisti del negoziato

Barack Obama è l’os­servato speciale del vertice che comincia oggi a Copenaghen. Ora bisogna capire quanto sarà profonda la svolta del presiden­te. Il piano clima prevede, tra l’altro, l’abbattimento delle emissioni di CO2 del 17% entro il 2020, ma rispetto al livello raggiunto nel 2005 (se si calcolasse il 1990 il taglio sarebbe pari solo al 3%). La legge è passata alla Camera dei rappre­sentanti il 26 giugno scorso, ma poi si è incaglia­ta al Senato, dove le lobby «energivore» sono fortissime. Obama ha cominciato allora a oscilla­re, tra tentazioni di svuotare il negoziato e tenta­tivi di rilancio, «rivendendo» lo stesso obiettivo del 17% già contenuto nel provvedimento bloc­cato dai senatori. Gli Stati Uniti hanno in mano le carte decisive del mazzo. In termini assoluti di emissioni sono stati appena raggiunti dalla Cina in testa alla classifica degli inquinatori, a quota 20% circa del totale mondiale (vedere tabella). Ma se si considera la quantità di anidride carbo­nica emessa pro capite gli Usa sono indiscutibil­mente primi con 19,4 tonnellate per persona, se­guiti dall’Europa con 8,6. La Cina segue con 5,1 tonnellate a testa.

IL PETROLIERE JACK GERARD
Obama è stretto tra pressio­ni industriali di segno diver­so (vedi il grafico a destra, ndr ). La vecchia lobby an­ti- Kyoto è ancora molto forte e tiene insieme i petrolieri (dall’American Petroleum In­stitute alla Hulliburton, più multinazionali come Bp America in affari con gli Stati Uniti). Sul fronte anti-Copenaghen si schierano le grandi industrie «energivore», come ConocoPhillips o Koch Industries e nu­merose associazioni di categoria, spalleggiate nel Congresso dall’influente deputato repub­blicano Joe Barton. Sotto la guida del presi­dente Jack N. Gerard ( foto ), American Petro­leum Institute, un conglomerato che rappre­senta anche le istanze dei principali gruppi pe­troliferi e chimici, ha lanciato una campagna con venti incontri pubblici («energy citizen») in altrettanti Stati per rafforzare il consenso a favore dei «negazionisti» (non c’è pericolo di surriscaldamento). Un po’ a sorpresa anche le industrie tecnologiche (da Microsoft ad Ap­ple) hanno quanto meno preso le distanze dal piano clima presentato da Obama. Infine lo schieramento ostile al presidente comprende anche i sindacati dell’industria pesante, a co­minciare dalla United Steelworkers.

IL MANAGER JEFFREY IMMELT
Dall’altra parte del fronte cominciano ad agitarsi quelle aziende che hanno fiutato l’af­fare della «green economy», che significa, in sostanza, pro­duzione di pannelli solari fo­tovoltaici, impianti eolici e biocarburanti (dalla Growth Energy alla Iberdrola Renewebles). La «lobby verde» comprende circa 300 tra aziende e or­ganizzazioni, come la America Wind Energy Association (eolico), la Solar energy Industry Association (solare) o i coltivatori di mais (biocarburanti). Per i grandi dell’auto (Gm, Ford e Chrysler-Fiat) la conversione ecologi­ca è una strada obbligata, imposta dal gover­no. La linea di Obama, in realtà, è un’onda che divide il cuore della grande impresa. Ge­neral Electric, guidata da Jeffrey Immelt ( fo­to ), punta su Copenaghen, come dimostrano gli stanziamenti nell’energia alternativa a va­sto raggio: dall’eolico al nucleare. Anche il gruppo chimico Du Pont ora investe nel biote­ch e nel solare. Infine, nella fascia intermedia sono cresciute altre imprese, come per esem­pio la Advanced mechanical products di Cin­cinnati (20 milioni di dollari di prestito pub­blico), che già produce migliaia di veicoli a elettricità.

LE FATICHE DELLA MERKEL
L’Unione Europea ha già vissuto la sua Copenaghen in­terna, conclusa con la formu­la del «tre volte 20». Entro il 2020 i Paesi Ue si impegnano a tagliare mediamente del 20% le emissioni, a ridurre gli sprechi dei consumi per il 20% e a coprire il 20% del fabbisogno con ener­gie rinnovabili. Inoltre la Ue appare in grado di rispettare il traguardo assegnatole a Kyoto: -8% di emissioni entro il 2012. In realtà l’Ue è forse la zona del mondo che più delle altre ha bisogno di un risultato nella città danese (per un approfondimento vedere il recente libro di Carlo Corazza, «EcoEuropa», Egea editore). Il discorso tocca soprattutto i governi di Fran­cia, Germania e Gran Bretagna che stanno im­ponendo una sorta di riconversione forzata ai rispettivi sistemi industriali. Basti solo pensa­re a quanto abbia dovuto faticare la cancellie­ra tedesca Angela Merkel ( foto ) per fare accet­tare alle case tedesche (Volkswagen in testa) la direttiva che impone vincoli ecologici ai co­struttori di auto europei. Senza misure più o meno equivalenti a carico dei concorrenti mondiali, questo capitolo collegato al post-Kyoto potrebbe venire rimesso in discus­sione. Ma c’è dell’altro. Centinaia di aziende tedesche, inglesi, francesi e spagnole hanno investito in modo massiccio nella «green eco­nomy ». Anche loro hanno bisogno di un buon accordo.

IL TRAGUARDO DI BERLUSCONI
Anche l’Italia può staccare un «dividendo verde», spe­cie con la crescita delle filie­re di piccole e medie aziende specializzate in rinnovabili, dal Piemonte al Veneto; dal­la Lombardia alla Puglia. (Il quadro completo nel libro di Alberto Clo, «Il rebus energetico», Il Muli­no). Senonché l’Italia è il Paese (con l’Au­stria) che appare più in difficoltà nella tabel­la di Kyoto. Roma dovrebbe ridurre del 6,5% le emissioni di CO2 entro il 2012, ma a fine 2008 aveva addirittura fatto segnare un au­mento del 12,1% (fonte Legambiente). Certo, complice la crisi, anche il governo guidato da Silvio Berlusconi ( foto ) potrebbe tagliare il traguardo. Ora, però, è chiamata a un ulte­riore, difficile, scatto: -13% di emissioni en­tro il 2020.

WEN JIABAO E I BREVETTI
Il premier cinese Wen Jia­bao ( nella foto ) dovrà fissa­re il prezzo della sua coope­razione. L’economia di Pe­chino si alimenta ancora a carbone: il 70% dell’energia consumata provoca fumi fossili che sembrano usciti dai romanzi di Cronin. Nello stesso tempo nel Guangdong e nelle altre regioni produt­tive affumicate dalla CO2, le corporation ci­nesi e multinazionali (China Sun Biochem, Renesola, Suntech Power Holdings, Suzlon, Canadian Solar) costruiscono il nu­mero più grande di pannelli fotovoltaici nel mondo: di fatto tutti destinati all’espor­tazione. La crisi ha ridotto gli investimenti mondiali nella «clean economy». Si è passa­ti dai 150-160 miliardi del 2008 ai 100-110 del 2009. Ma il potenziale potrebbe arrivare a 320 miliardi entro il 2020. Le chiavi per fare il salto di qualità sono i diritti sulla pro­prietà intellettuale. Wen Jiabao appare nel­le condizioni di promuovere uno scambio tra un taglio (ridotto) di emissioni in cam­bio dei «brevetti verdi». Ma le industrie del settore di Stati Uniti, Giappone, Canada, Au­stralia e Svizzera non ne vogliono sentir parlare.

IL PRESIDENTE LULA E GLI ALTRI
Giappone, Australia, Brasi­le, India e Russia si presenta­no come outsider e possibili sorprese del negoziato. C’è una certa attesa per vedere come si muoverà il nuovo premier di Tokio, il democra­tico Yukio Hatoyama. Finora il segretario della convenzione Onu, Yvo de Boer, si era scontrato con il muro dell’ex pri­mo ministro liberale Taro Aso. Nelle ultime settimane Hatoyama ha già fatto qualche aper­tura sulle percentuali di taglio alle emissioni, ma bisognerà vedere come riuscirà a contene­re l’azione delle lobby, a cominciare da Toyo­ta, leader mondiale nella proprietà intellettua­le per i veicoli elettrici. Il Brasile di Ignacio Lu­la da Silva ( nella foto ), invece, potrebbe rive­larsi una pedina importante per avvicinare i blocchi contrapposti. La posizione di parten­za è difensiva, come quella dell’India («siamo disponibili solo a fare tagli molto limitati»). Ma i negoziatori americani ed europei punta­no ad ammorbidire Lula, offrendo aiuti per frenare la deforestazione dell’Amazzonia (ope­razione vitale) e sbocchi di mercato all’arrem­bante industria brasiliana dei biocarburanti (già investiti 10,8 miliardi di dollari).

fonte: corriere.it

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