Barack Obama è l’osservato speciale del vertice che comincia oggi a Copenaghen. Ora bisogna capire quanto sarà profonda la svolta del presidente. Il piano clima prevede, tra l’altro, l’abbattimento delle emissioni di CO2 del 17% entro il 2020, ma rispetto al livello raggiunto nel 2005 (se si calcolasse il 1990 il taglio sarebbe pari solo al 3%). La legge è passata alla Camera dei rappresentanti il 26 giugno scorso, ma poi si è incagliata al Senato, dove le lobby «energivore» sono fortissime. Obama ha cominciato allora a oscillare, tra tentazioni di svuotare il negoziato e tentativi di rilancio, «rivendendo» lo stesso obiettivo del 17% già contenuto nel provvedimento bloccato dai senatori. Gli Stati Uniti hanno in mano le carte decisive del mazzo. In termini assoluti di emissioni sono stati appena raggiunti dalla Cina in testa alla classifica degli inquinatori, a quota 20% circa del totale mondiale (vedere tabella). Ma se si considera la quantità di anidride carbonica emessa pro capite gli Usa sono indiscutibilmente primi con 19,4 tonnellate per persona, seguiti dall’Europa con 8,6. La Cina segue con 5,1 tonnellate a testa.
IL PETROLIERE JACK GERARD
Obama è stretto tra pressioni industriali di segno diverso (vedi il grafico a destra, ndr ). La vecchia lobby anti- Kyoto è ancora molto forte e tiene insieme i petrolieri (dall’American Petroleum Institute alla Hulliburton, più multinazionali come Bp America in affari con gli Stati Uniti). Sul fronte anti-Copenaghen si schierano le grandi industrie «energivore», come ConocoPhillips o Koch Industries e numerose associazioni di categoria, spalleggiate nel Congresso dall’influente deputato repubblicano Joe Barton. Sotto la guida del presidente Jack N. Gerard ( foto ), American Petroleum Institute, un conglomerato che rappresenta anche le istanze dei principali gruppi petroliferi e chimici, ha lanciato una campagna con venti incontri pubblici («energy citizen») in altrettanti Stati per rafforzare il consenso a favore dei «negazionisti» (non c’è pericolo di surriscaldamento). Un po’ a sorpresa anche le industrie tecnologiche (da Microsoft ad Apple) hanno quanto meno preso le distanze dal piano clima presentato da Obama. Infine lo schieramento ostile al presidente comprende anche i sindacati dell’industria pesante, a cominciare dalla United Steelworkers.
IL MANAGER JEFFREY IMMELT
Dall’altra parte del fronte cominciano ad agitarsi quelle aziende che hanno fiutato l’affare della «green economy», che significa, in sostanza, produzione di pannelli solari fotovoltaici, impianti eolici e biocarburanti (dalla Growth Energy alla Iberdrola Renewebles). La «lobby verde» comprende circa 300 tra aziende e organizzazioni, come la America Wind Energy Association (eolico), la Solar energy Industry Association (solare) o i coltivatori di mais (biocarburanti). Per i grandi dell’auto (Gm, Ford e Chrysler-Fiat) la conversione ecologica è una strada obbligata, imposta dal governo. La linea di Obama, in realtà, è un’onda che divide il cuore della grande impresa. General Electric, guidata da Jeffrey Immelt ( foto ), punta su Copenaghen, come dimostrano gli stanziamenti nell’energia alternativa a vasto raggio: dall’eolico al nucleare. Anche il gruppo chimico Du Pont ora investe nel biotech e nel solare. Infine, nella fascia intermedia sono cresciute altre imprese, come per esempio la Advanced mechanical products di Cincinnati (20 milioni di dollari di prestito pubblico), che già produce migliaia di veicoli a elettricità.
LE FATICHE DELLA MERKEL
L’Unione Europea ha già vissuto la sua Copenaghen interna, conclusa con la formula del «tre volte 20». Entro il 2020 i Paesi Ue si impegnano a tagliare mediamente del 20% le emissioni, a ridurre gli sprechi dei consumi per il 20% e a coprire il 20% del fabbisogno con energie rinnovabili. Inoltre la Ue appare in grado di rispettare il traguardo assegnatole a Kyoto: -8% di emissioni entro il 2012. In realtà l’Ue è forse la zona del mondo che più delle altre ha bisogno di un risultato nella città danese (per un approfondimento vedere il recente libro di Carlo Corazza, «EcoEuropa», Egea editore). Il discorso tocca soprattutto i governi di Francia, Germania e Gran Bretagna che stanno imponendo una sorta di riconversione forzata ai rispettivi sistemi industriali. Basti solo pensare a quanto abbia dovuto faticare la cancelliera tedesca Angela Merkel ( foto ) per fare accettare alle case tedesche (Volkswagen in testa) la direttiva che impone vincoli ecologici ai costruttori di auto europei. Senza misure più o meno equivalenti a carico dei concorrenti mondiali, questo capitolo collegato al post-Kyoto potrebbe venire rimesso in discussione. Ma c’è dell’altro. Centinaia di aziende tedesche, inglesi, francesi e spagnole hanno investito in modo massiccio nella «green economy ». Anche loro hanno bisogno di un buon accordo.
IL TRAGUARDO DI BERLUSCONI
Anche l’Italia può staccare un «dividendo verde», specie con la crescita delle filiere di piccole e medie aziende specializzate in rinnovabili, dal Piemonte al Veneto; dalla Lombardia alla Puglia. (Il quadro completo nel libro di Alberto Clo, «Il rebus energetico», Il Mulino). Senonché l’Italia è il Paese (con l’Austria) che appare più in difficoltà nella tabella di Kyoto. Roma dovrebbe ridurre del 6,5% le emissioni di CO2 entro il 2012, ma a fine 2008 aveva addirittura fatto segnare un aumento del 12,1% (fonte Legambiente). Certo, complice la crisi, anche il governo guidato da Silvio Berlusconi ( foto ) potrebbe tagliare il traguardo. Ora, però, è chiamata a un ulteriore, difficile, scatto: -13% di emissioni entro il 2020.
WEN JIABAO E I BREVETTI
Il premier cinese Wen Jiabao ( nella foto ) dovrà fissare il prezzo della sua cooperazione. L’economia di Pechino si alimenta ancora a carbone: il 70% dell’energia consumata provoca fumi fossili che sembrano usciti dai romanzi di Cronin. Nello stesso tempo nel Guangdong e nelle altre regioni produttive affumicate dalla CO2, le corporation cinesi e multinazionali (China Sun Biochem, Renesola, Suntech Power Holdings, Suzlon, Canadian Solar) costruiscono il numero più grande di pannelli fotovoltaici nel mondo: di fatto tutti destinati all’esportazione. La crisi ha ridotto gli investimenti mondiali nella «clean economy». Si è passati dai 150-160 miliardi del 2008 ai 100-110 del 2009. Ma il potenziale potrebbe arrivare a 320 miliardi entro il 2020. Le chiavi per fare il salto di qualità sono i diritti sulla proprietà intellettuale. Wen Jiabao appare nelle condizioni di promuovere uno scambio tra un taglio (ridotto) di emissioni in cambio dei «brevetti verdi». Ma le industrie del settore di Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia e Svizzera non ne vogliono sentir parlare.
IL PRESIDENTE LULA E GLI ALTRI
Giappone, Australia, Brasile, India e Russia si presentano come outsider e possibili sorprese del negoziato. C’è una certa attesa per vedere come si muoverà il nuovo premier di Tokio, il democratico Yukio Hatoyama. Finora il segretario della convenzione Onu, Yvo de Boer, si era scontrato con il muro dell’ex primo ministro liberale Taro Aso. Nelle ultime settimane Hatoyama ha già fatto qualche apertura sulle percentuali di taglio alle emissioni, ma bisognerà vedere come riuscirà a contenere l’azione delle lobby, a cominciare da Toyota, leader mondiale nella proprietà intellettuale per i veicoli elettrici. Il Brasile di Ignacio Lula da Silva ( nella foto ), invece, potrebbe rivelarsi una pedina importante per avvicinare i blocchi contrapposti. La posizione di partenza è difensiva, come quella dell’India («siamo disponibili solo a fare tagli molto limitati»). Ma i negoziatori americani ed europei puntano ad ammorbidire Lula, offrendo aiuti per frenare la deforestazione dell’Amazzonia (operazione vitale) e sbocchi di mercato all’arrembante industria brasiliana dei biocarburanti (già investiti 10,8 miliardi di dollari).
fonte: corriere.it
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lunedì 7 dicembre 2009
I sette protagonisti del negoziato
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