«Il mondo vuole un vero accordo», era infatti una delle parole d'ordine della grande e colorata manifestazione che sabato ha invaso Copenhagen con almeno 100.000 persone, tanti cittadini comuni, tanti bambini, oltre alle rappresentanze di contadini, comunità indigene, comunità di pescatori ed organizzazioni da ogni parte del mondo. E quella è stata solo la prima di una serie di manifestazioni che si stanno continuando ad organizzare in questi giorni, e proseguiranno nei prossimi, fino alla fine della COP. Poco fa oltre duemila persone si sono unite ad un'azione di blocchi stradali lanciata da Via Campesina. Un gruppo di teatro di strada unitosi all'azione danza davanti alle camionette della polizia e così clown e tamburi accompagnano la marcia "Liberi di vivere di natura". Poi il 16 dicembre l'Assemblea dei popoli che si riunirà a ridosso del Bella Center, il luogo della COP15, invitando i leader del mondo ad uscire dalle sale della conferenza per ascoltare dalle vive voci dei loro cittadini, le loro preoccupazioni sui cambiamenti climatici e le loro proposte su come mettere in salvo il pianeta.
Sicuramente però lo scontento maggiore che sta creando fibrillazioni sui negoziati è quello dei ministri dei paesi africani e di alcuni emergenti, e mentre la cosa che si respira di più è che si vada ad una COP 16, già convocata per dicembre 2010 a Città del Messico, come appuntamento per l'accordo complessivo di passaggio alla fase 2 del Protocollo di Kyoto, mancando ancora cifre e date per il taglio delle emissioni dei Paesi più industrializzati, il finanziamento a lungo termine delle azioni di mitigazione e adattamento e la data limite per il taglio delle emissioni anche per i paesi poveri, la voglia di far saltare tutto il banco pare stia crescendo in diversi primi ministri dei Paesi africani. Addirittura molti capi di stato che contavano di arrivare proprio per il rush finale, stanno iniziando a minacciare di non prendere l'aereo. E da subito intanto i G77 si stanno rifiutando di partecipare ai gruppi di lavoro sul loro da farsi se i Paesi ricchi non dicono prima i loro. Le bozze diffuse e che dovrebbero essere il cuore dell'accordo presentano ancora molti dati come provvisori ma le forbici attorno alle quali si dovrebbero concentrare le decisioni dei capi di stato sono l'aumento della temperatura media che non dovrebbe superare gli 1.5°C o alternativamente i 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Taglio delle emissioni delle Parti prese collettivamente, che oscilla tra il 50%, l'85% o il 95% entro il 2050, rispetto ai livelli del 1990. Riduzione delle emissioni dei Paesi industrializzati che oscilla tra il 75/85%, almeno l'80/95% o più del 95% entro il 2050, rispetto ai livelli del 1990.
In questi primi giorni comunque non solo proposte contrastanti tra paesi ricchi e in via di sviluppo, ma anche una divisione tra gli Stati più poveri, visto che i piccoli paesi insulari e le nazioni africane, più poveri e più vulnerabili al cambiamento climatico, hanno avanzato la proposta di un trattato legalmente vincolante, più severo del protocollo di Kyoto, che però vede contrari i grandi paesi emergenti, come la Cina, che temono un freno alla crescita. In prima linea Tuvalu, arcipelago polinesiano a mezza strada fra Hawaii e Australia, che ha chiesto e ottenuto una sospensione dei negoziati fino alla soluzione del problema. L'appello è stato raccolto da altri membri dell'Aosis, l'Associazione dei piccoli stati insulari, come le Isole Cook, le Barbados e Fiji, e da vari paesi poveri africani, Sierra Leone, Senegal e Capo Verde. Diversi hanno ripetuto la richiesta di Tuvalu di fermare la crescita delle temperature globali a 1,5 gradi centigradi, e la concentrazione di gas serra in atmosfera a 350 parti per milione, invece delle 450 preferite dai paesi industrializzati e da qualche grande emergente. I paesi a forte crescita come Cina, India e Sudafrica si oppongono ai target più ambiziosi, perché temono che possano rallentare la crescita economica. Mentre scriviamo intanto una manifestazione itinerante spontanea dei parlamentari Pan-Africani, guidati dal loro Presidente esecutivo Awudu Mbaya Cyprian, si sta snodando nelle sale e nei corridoi, tesa ad esprimere grave preoccupazione per la mancanza di trasparenza e democrazia nel processo in atto.
Sul cambiamento climatico la posizione africana non è stata considerata e che risulterà sottolineano i parlamentari rendendo così più conveniente non siglare alcun accordo piuttosto che aderire ad uno che significherà la morte per il popolo africa. Quindi la situazione è molto delicata, tanto più che non sembra proprio praticabile andare oltre un massimo aggiornamento della firma a quattro-sei mesi, visto che la prossima Cop16 troverebbe gli Stati Uniti impegnati nelle elezioni di medio termine e quindi nuovamente impossibilitati di andare fino in fondo.
fonte: greenreport.it
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