La Danimarca rilancia il patto sul clima, l'India lo affonda. A sette giorni dalla maratona di Copenaghen, le due settimane di negoziati Onu sul futuro climatico del pianeta, continua l'altalena tra ottimismo e pessimismo. In mattinata era trapelata la bozza di accordo messa a punto dai padroni di casa: emissioni serra globali dimezzate rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050; 80 per cento del taglio a carico dei paesi industrializzati; picco d'inquinamento entro il 2020 e poi la diminuzione in modo da evitare che l'aumento di temperatura superi i 2 gradi nell'arco del secolo, soglia oltre la quale il danno viene considerato catastrofico.
È una posizione in linea con le richieste degli scienziati che, in maniera sempre più pressante, sollecitano un rapido abbattimento delle emissioni serra. La presidenza danese inoltre aveva proposto uno stratagemma per aggirare la sfasatura temporale che rischia di far fallire il summit: gli Stati Uniti di Obama, dopo 8 anni di isolazionismo ambientale, vogliono rientrare in gioco, ma hanno bisogno di qualche mese per far passare una legge nazionale coerente con questo obiettivo. Di qui l'idea di raggiungere un'intesa che preveda tagli obbligatori per ogni paese al 2020 rendendola però legalmente vincolante solo il prossimo anno.
Un complesso gioco di incastri che New Delhi ha fatto saltare nel giro di poche ore ponendo quattro condizioni difficilmente conciliabili con l'impostazione europea e con le richieste dei climatologi. Primo: nessun vincolo sulla riduzione delle emissioni serra che, a differenza di quello che avviene nei paesi tecnologicamente più avanzati, nei paesi recentemente industrializzati sono ancora legate alla crescita del Pil. Secondo: nessun controllo internazionale senza aiuti economici. Terzo: nessuna data per il picco delle emissioni che alterano il clima. Quarto: niente barriere economiche sulle merci ad alto impatto climatico prodotte nei paesi in via di sviluppo.
"Se la bozza danese contiene indicazioni temporali il vertice sarà un fallimento", ha sintetizzato il ministro dell'Ambiente indiano, Jarain Ramesh, aggiungendo che su questa posizione convergeranno le delegazioni di Cina, Sud Africa e Brasile. Le economie di questi paesi hanno però interessi non omogenei e resta da misurare la solidità del cartello del no. La Cina punta a conquistare la leadership delle fonti rinnovabili e ha annunciato aumenti di efficienza energetica dell'ordine del 40 per cento: ha una struttura industriale concentrata e ha bisogno di un ulteriore salto tecnologico per restare competitiva anche in vista di una possibile rivalutazione dello yuan nei confronti del dollaro. Il Brasile ha deciso di ridurre drasticamente la deforestazione dell'Amazzonia aprendo la porta a un possibile taglio della CO2 vicino al 40 per cento al 2020. Il Sudafrica è al quattordicesimo posto per le emissioni di carbonio, ma rischia di pagare un prezzo altissimo in caso di un cambiamento climatico violento.
Sarà possibile nelle due settimane di negoziato ricucire posizioni così divergenti? Molto dipenderà dai fondi che i paesi industrializzati sono disposti a mettere sul tappeto. I paesi in via di sviluppo chiedono 400 miliardi di dollari l'anno per agevolare l'export delle tecnologie a basso impatto ambientale. Ivo de Boer, che guiderà la conferenza di Copenaghen, ha calcolato in 10 - 12 miliardi di dollari l'anno l'importo necessario per il cosiddetto quick start, l'avvio rapido di cui hanno bisogno i paesi industrialmente più arretrati per agganciarsi al treno dello sviluppo a basso impatto ambientale. Due cifre lontane, come lontane sono le posizioni ufficiali: la regola di partenza per ogni negoziato.
fonte: repubblica.it
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mercoledì 2 dicembre 2009
Clima, l'India affonda il piano di Copenaghen
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