«Non posso più fidarmi di mio padre» dice Gada Tukala, che ha poco più di vent’anni, alleva vacche da quando non andava all’asilo e decide per tutti da quando il clima non è più lo stesso. «I vecchi vorrebbero aspettare dieci giorni di pioggia prima di seminare il sorgo, io so che dopo quattro scrosci è meglio affrettarsi sperando che duri». Gada è un giunco nero in un cielo bianco di luce, vive in un villaggio che di moderno ha solo le ciabatte di plastica ai piedi, si accontenta di nulla e ha una sola paura: «Sai perché non piove più? Una volta si stava tutti insieme sotto il grande albero, si ammazzava la bestia più grassa, e si pregava tutta la notte per una buona semina. Oggi con le nuove religioni la natura ha smesso di volerci bene». Gada non lo sa ma il suo paese è cristiano da 1.700 anni. E musulmano da quasi altrettanti: «Dio è arrabbiato con me e la mia famiglia» ci dice Zein Leba, contadina sessantenne che ha un ettaro di terra, sette figli, e quando prega si rivolge alla Mecca. «Dipende tutto da lui, speriamo che passi». L’Etiopia di chiese e moschee, di campi di mais, sorgo e fagioli è rassegnata da sempre a una siccità ogni dieci anni, ma da qualche tempo rimane a secco quasi un anno su due. «Colpa del cielo» dice il tam tam degli altipiani. Eppure quando interverrà al vertice sul clima che si apre il prossimo 7 dicembre a Copenhagen, il primo ministro Meles Zenawi non invocherà né Allah né gli dei della pioggia. Dirà che il riscaldamento globale sta rovinando il suo paese. E chiederà all’Occidente una montagna di soldi per insegnare a Gada e a Leba a fare a meno dell’acqua.
Reportage dall'Etiopia |
L’Unione africana ha scelto l’Etiopia per trattare a nome di tutti al summit che dovrebbe salvare il pianeta, ma molto probabilmente rimanderà il bel gesto a data da destinarsi. Peccato, perché la posta è alta e i numeri fin troppo eloquenti: se nel 2006 l’Italia ha immesso in atmosfera 474 milioni di tonnellate di anidride carbonica, l’Etiopia con un terzo degli abitanti in più si è fermata a poco più di un centesimo: sei milioni di tonnellate. Se il colosso cinese è responsabile del 21 per cento delle emissioni globali, e gli Stati Uniti seguono a ruota con il 20,2, l’Africa intera rincorre lo sviluppo producendo non più del 3,7 per cento dei danni. Il disequilibrio è enorme, ma diventa insostenibile se si pensa che l’impatto è inversamente proporzionale alle cause: in Italia (almeno per ora) il cambiamento climatico mette a repentaglio il week end, in Etiopia fa sparire la materia prima che tiene in vita l’80 per cento della popolazione. «Non è che piova meno» dice a Io donna Gabru Jember, ricercatore dell’Agenzia nazionale di meteorologia di Addis Abeba. «È che le precipitazioni sono diventate imprevedibili: da sempre in Etiopia abbiamo una stagione umida da marzo ad aprile, e una più lunga da inizio giugno a fine settembre. Ora il ritmo è saltato e può smettere di piovere a una settimana dalla semina, o magari riprendere quando già ci si preparava al raccolto». A quel punto cresce un po’ d’erba, il paesaggio si fa incantevole, ma il sorgo si alza mesto senza semi. È lo spettro della siccità verde che si aggiunge ai malanni tradizionali e, solo in Etiopia, nei prossimi mesi metterà a rischio la sopravvivenza di oltre sei milioni di contadini.
E sì che alle spalle il paese degli altipiani ha anni di crescita a due cifre. Con i suoi tre milioni di abitanti, Addis Abeba ha preso a mimare le mosse della danza globale e a sostituire la terra battuta con grandi torri commerciali ad alto fatturato e nessun’altra pretesa. Ma l’Etiopia dei villaggi continua ad arrancare tra la sete e la fame: qui tutto viene e va con il raccolto, e ci si può ritrovare sul lastrico solo perché la pioggia cade nel momento sbagliato. «Otto anni fa avevo cento vacche e cento pecore» fantastica la quarantenne Momena Ali sotto il sole malato del distretto pastorale dell’Erer. «Allora l’erba era tanto alta che non vedevi le bestie. Poi la pioggia è sparita e l’erba è scesa prima a un braccio, poi a un palmo, poi a un dito di verde: io non ho più nulla, ma Allah saprà cosa fare dei miei dieci figli». Acqua, pascoli, sole e rovina. Nella regione agricola dell’Oromia 32 distretti su 387 da gennaio avranno bisogno dei sacchi di farina del governo: tra questi il Fadis, che ci accoglie con una distesa di cereali senza frutto, di bambini con i quaderni sottobraccio, e di uomini che ricordano un tempo in cui tutto sembrava più pieno e più semplice. «Eravamo ricchi» ci dicono nel villaggio di Koje. «I campi che oggi danno cinque quintali di sorgo fino a dieci anni fa ne producevano anche trenta». Mesfin Oly, giovane consulente agricolo dell’amministrazione regionale, fa notare che gli invasi dell’acqua piovana ancora nel 2002 davano da bere per sei mesi all’anno, mentre oggi arrivano a malapena a coprire due mesi di sete. Non che qualcuno si lamenti: qui tutti sembrano abituati a sopravvivere se si può, e a sopportare le angherie del cielo con la stessa pazienza con cui tollerano le mosche sul labbro per decine di snervanti minuti. Ma nessuno si fa illusioni: «Tra poco comincerà la carestia». Per fronteggiarla il piano d’emergenza di Addis Abeba garantirà 15 chili di farina al mese a 32mila dei 140mila abitanti del distretto. Rispetto alla grande carestia del 1984, nessuno dovrebbe morire per fame. Ma nelle capanne di fango in cui si mescolano vagiti di bimbi e muggiti di vacca, si fa fatica a pensare che per i villaggi il peggio sia ancora di là da venire.
Sprofondiamo sempre più nell’Africa che cambia senza volere. A dieci chilometri dalla città di Harar, che rimane magicamente sospesa tra memorie coloniali e identità musulmana, il lago Haramaya è semplicemente sparito: «Dove si andava in barca ora brucano le capre» dice Million Gebrenes, ricercatore universitario che studia l’impatto del global warming sull’economia rurale. «È successo tutto in pochissimi anni, perché i contadini hanno abusato dell’acqua, la deforestazione ha aumentato il sedimento e il riscaldamento ha seccato le sorgenti». Qui come altrove, la vita si fa dura appena si scende dai duemila metri dei grandi altipiani. Nel centro del paese, a cento chilometri dalla capitale, è il lago Abjata a ritrarsi di quasi un chilometro all’anno. «Ci sono rimasti solo i fenicotteri» sospira il pastore Tene Babsa, che ha sessant’anni e due gambe sottili come il bastone che usa per evocare i ricordi lontani. Racconta di quando invece delle distese di sale c’era uno specchio d’acqua pescoso, e al posto della terra smagrita si stendevano chilometri di pascoli da venti mucche a famiglia: «Ora ne ho quattro che danno un litro di latte al giorno, dieci anni fa ne avevo decine e riempivo i secchi anche senza mungerle». L’avvocato Dessalegn Mesfin, che ha guidato il team dei negoziatori africani verso il summit di Copenhagen, dice che per fronteggiare quest’emergenza «le priorità sono due: un accordo sulla riduzione dei gas serra, e un piano di finanziamenti per aiutare i paesi più colpiti ad adattarsi alle nuove condizioni climatiche». Con il programma Meret, le Nazioni Unite hanno dimostrato che bastano investimenti modesti per arrivare a una gestione del terreno che resista alle bizze del nuovo millennio. Nel bacino di Dabe, a pochi chilometri dalla città di Nazreth, 202mila euro sono stati sufficienti per piantare una foresta, alimentare le sorgenti e mettere in sicurezza trecento famiglie di contadini. Pochi o tanti, oltre che di emissioni è quindi questione di soldi. Il primo ministro Meles Zenawi lo sa, e va a Copenhagen per battere cassa presso i grandi produttori e i grandi inquinatori del Nord del mondo. Si parte da una richiesta di 45 miliardi di euro all’anno. L’Africa intera fa sapere che saranno difficilmente trattabili.
fonte: corriere.it
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