mercoledì 15 ottobre 2008

«Piano-clima, l'Ue uccide l'industria»

«Noi non siamo anti-ambiente. Noi l'impegno per ridurre le emissioni inquinanti lo manteniamo. Ma non con queste norme. Perché così si uccide l'industria europea. E quella italiana prima delle altre ». A Silvio Berlusconi l'ha già scritto, Emma Marcegaglia. In due occasioni. Le risposte sul campo, riconosce, sono state quelle che gli imprenditori si attendevano: «Il governo ha capito che non è una questione tecnica, che qui ci giochiamo il futuro. E diamo atto ai ministri interessati, da Andrea Ronchi a Claudio Scajola, da Franco Frattini a Stefania Prestigiacomo del grande lavoro già fatto per far capire anche a Bruxelles che la nostra non è un difesa corporativa ma la denuncia di un rischio certo: danni enormi alle economie in cambio di benefici infinitesimali per l'ambiente». Molti l'hanno inteso, dice Marcegaglia: e sono soprattutto i Paesi che, come l'Italia, hanno una forte struttura manifatturiera. Ma le resistenze, in sede comunitaria, restano pesanti.

La presidente di Confindustria non arriva a parlare di «burocrati » o di «operazioni ideologiche di pura immagine». Rimane perplessa, però, di fronte all'ultima dichiarazione di Manuel Barroso. Anche se lei stessa intravede «forse qualche elemento di flessibilità in più», quelle parole sembrano confermare l'irremovibilità della Commissione sui provvedimenti ambiente-energia. Così, dopo le lettere, arriva l'appello pubblico al premier. Oggi a Bruxelles inizia il Consiglio europeo. Il «pacchetto clima» sarà un tema caldo quanto la crisi finanziaria. E a Berlusconi, che stasera sarà alla cena in cui i capi di Stato e di governo affronteranno la questione, chiede di «sostenere le ragioni dello sviluppo e prendere una posizione molto netta». Anche con un veto? «Anche con un veto, sì». A raccontare perché Confindustria solleciti almeno un rinvio bastano pochi numeri. I provvedimenti già votati in Commissione, dicono gli imprenditori, sarebbero stati insostenibili anche «prima». Ma «prima» il mondo non era stato squassato dalla crisi finanziaria globale. Che ha trasformato quell'«insostenibile» in altri aggettivi: «Inaccettabile e devastante ». Tale è il conto che Marcegaglia riassume: «Maggiori costi di 180 miliardi l'anno per le imprese europee, e di 20-27 solo per quelle italiane». Il tutto per ottenere un beneficio, in termini di riduzione delle emissioni di Co2 (il biossido di carbonio), «tra lo 0,3 e lo 0,53%». Una percentuale «irrisoria, e non solo in paragone ai costi: l'Europa se li sobbarca, ma Usa, Cina, Brasile, India non hanno alcuna intenzione di farlo, e basterebbe andare a produrre in Turchia, in Nord Africa, di fatto anche in Russia per non avere più vincoli né prezzi da pagare ». Il che porta all'altro grande nodo: «In condizioni simili, e con una recessione alle porte, l'Europa corre un forte rischio di delocalizzazione. Il che aggreverebbe ulteriormente il pericolo per l'occupazione: secondo i nostri colleghi tedeschi, potrebbero svanire centinaia di migliaia di posti di lavoro».

Vale per tutti. Vale in particolare per l'Italia, la cui economia si regge più di altre sull'industria. E con un problema nel problema. Accanto al «pacchetto clima» ci sono i provvedimenti che riguardano le auto. Ai costruttori costerebbe 45 miliardi l'anno, per un taglio delle emissioni stimato nello 0,0015%. «Ridicolo», ripete Emma Marcegaglia. Con un'aggravante: i costi maggiori sono, paradossalmente, a carico di chi produce le vetture meno inquinanti, ossia le piccole e medie. Fiat sarebbe insomma la più penalizzata (non a caso Sergio Marchionne parla di «danni enormi» e valuta, intanto, l'uscita dall'associazione europea). Confindustria è al fianco del Lingotto nella denuncia: «Di fatto pagherebbe solo l'industria italiana. Inaccettabile»

fonte: corriere.it

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