mercoledì 12 marzo 2008

Licenziamento di donna in stato interessante: riassunzione e risarcimento del danno

Con la sentenza del 3 marzo 2008, n. 5749, la sezione lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro è tenuto a pagare i danni derivanti dal licenziamento della dipendente incinta, anche se ignorava che questa fosse in stato interessante.
Per la Cassazione, il risarcimento ha riguardato le retribuzioni maturate dalla stessa non dal giorno in cui le è stato comunicato il recesso, ma da quello in cui ha presentato materialmente all’azienda il certificato di gravidanza, giorno che può coincidere con quello in cui è stato notificato al datore il ricorso introduttivo del giudizio, perché il fascicolo di parte depositato in Tribunale comprende anche la certificazione omessa in precedenza.
Per la Cassazione, poichè gli stipendi da versare alla lavoratrice licenziata maturano solo dal momento della presentazione del certificato medico di gravidanza, ai sensi dell’articolo 4 del Dpr 1026/76, la Corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere alla dipendente il diritto al risarcimento del danno dal giorno della notifica del ricorso sino al compimento di un anno d’età del bambino.

Fatto e diritto
Una dipendente di uno studio odontoiatrico, dopo essere stata licenziata nel periodo di gravidanza, aveva richiesto la condanna al risarcimento dei danni di tale società e la nullità del licenziamento con condanna al risarcimento dei danni, pari alle retribuzioni maturate.
Si costituiva la società convenuta, chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale dichiarava la nullità del recesso e condannava lo studio al pagamento delle retribuzioni in questione, ma questo ricorreva in Corte d’appello chiedendo il rigetto della domanda proposta della dipendente.
La Corte d'Appello, pur prendendo atto che il recesso era stato intimato in un momento in cui l'appellata, in virtù di presunzione legale, doveva ritenersi in stato di gravidanza, riteneva infondata la domanda risarcitoria proposta dalla dipendente, non avendo la stessa mai fatto pervenire alla datrice di lavoro alcuna certificazione del suo stato (né prima, né dopo il parto) come previsto dall'art. 4 DPR 1026 del 1976. La Corte, pertanto, rigettava la domanda risarcitoria, confermando nel resto la sentenza impugnata e la dipendente ha presentato ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione
Per la Cassazione, il divieto di licenziamento di cui all'art. 2 della legge n. 1204 del 1971 opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, il licenziamento intimato comporta (anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto e anche se il datore di lavoro è inconsapevole dello stato della lavoratrice) il pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, le quali maturano a decorrere dalla presentazione della certificazione attestante lo stato di gravidanza, ai sensi dell'art. 4 del D.P.R. n. 1026 del 1976 (Cass. 20 maggio 2000 n. 6595).
Alla luce di tale indirizzo erroneamente il Tribunale ha escluso del tutto il diritto della lavoratrice alle retribuzioni dovute a titolo di risarcimento del danno, richiamandosi alla disciplina codicistica che lo condizionerebbe all'elemento soggettivo del datore di lavoro,. Tuttavia il giudice, così facendo, ha sostanzialmente disapplicato la norma speciale, ossia l'art. 2 della legge 1204 del 1971, il quale pone il divieto di licenziamento in connessione «con lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio», di talché il licenziamento è «contra legem» anche nel caso di inconsapevolezza del datore di lavoro.
La Cassazione ha respinto quanto affermato dal Tribunale, cioè che la illegittimità del licenziamento opera solo ai fini del diritto al ripristino del rapporto.
La Corte quindi ha accolto il ricorso della dipendente cancellando la sentenza impugnata e decidendo nel merito di condannare la responsabile dello studio al pagamento di una somma pari all'ammontare delle retribuzioni maturate nel periodo in questione.

Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 5749 del 3 marzo 2008

fonte: newsfood.com

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